Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 19/03/2019 Scarica PDF
Il conflitto di interessi negli studi legali associati
Angelo Bonetta, Avvocato in MilanoSommario: 1. Inquadramento normativo - 2. Riflessi sull’attività nello studio legale associato - 3. Conflitto attuale e potenziale - 4. Perimetro del segreto professionale - 5. Regole per l’arbitrato irrituale e per quello rituale: primi spunti di riflessione - 6. Possibile temperamento di un rigore non sempre giustificato nelle attività stragiudiziali: il superiore interesse del cliente - 7. Alcune ipotesi operative in equilibrio fra il decoro della professione e il diritto del cliente
1. Inquadramento normativo.
Il tema del conflitto di interessi dell’avvocato può operare su (almeno) tre piani diversi, ma convergenti: deontologico, processuale, contrattuale.
Secondo l’art. 24 del nuovo Codice Deontologico Forense (c.d.f.) l’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale (primo comma). La logica del divieto è chiarita dal comma successivo: nell’esercizio dell’attività professionale l’avvocato deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale. Si tratta di uno spettro di situazioni davvero molto ampio, potenzialmente omnicomprensivo e, per di più, gli organi della disciplina deontologica attribuiscono al precetto una valenza di ordine pubblico, a tutela della professione nel momento in cui essa concorre all’attuazione del diritto costituzionale alla giustizia, facendone derivare altri tre corollari abbastanza consolidati e tralatizi: innanzitutto, se il bene protetto è il decoro della professione e della categoria (di cui certo il cliente non potrebbe disporre) il consenso del cliente non assume di regola valore esimente per l’avvocato; in secondo luogo,l’iniziativa disciplinare può essere assunta d’ufficio, anche in assenza di esposti da parte del cliente, a fronte della semplice notizia eventualmente attinta dagli atti di un processo o dalle notizie di stampa; da ultimo, ma non per importanza,il rigore dell’art. 24 diventa una chiave di lettura e di applicazione anche di altre norme deontologiche (in particolare: dell’art. 68 c.d.f. cui subito si farà cenno), proprio perché il suo terzo comma con maggiore concretezza specifica che ilconflitto di interessi certamente sussiste: se il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altro cliente o altra parte assistita; se la conoscenza degli affari di una parte può favorire ingiustamente un altro cliente o altra parte assistita; se l’adempimento di un precedente mandato limita l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico. è già rilevante, appunto, il fatto che il legislatore deontologico abbia ritenuto sufficiente la mera possibilità e non un pregiudizio attuale.
Ricapitolando, il perimetro dell’art. 24 è molto lato, ma i tre esempi espliciti di condotte certamente vietate riguardano: (i) il rischio di violazione del segreto in genere; (ii) il rischio di utilizzo improprio di notizie che, quand’anche non segrete, favoriscono un’altra parte (ad esempio: per i tempi con i quali vengono acquisite da una parte concorrente; si pensi ad una selezione competitiva o ad un’asta); (iii) il rischio di scelte adottate ponderando non esclusivamente all’interesse di un solo cliente, ma anche altre situazioni e relazioni (ad esempio: un avvocato non esperisce o non raccomanda tutti i rimedi ragionevolmente disponibili perché, in realtà, aspira ad proporsi alla sua attuale controparte, economicamente molto più solida e in grado di affidare incarichi più remunerativi, ed utilizza il primo incarico come un’occasione di auto-promozione). La sanzione può arrivare alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni, quindi le conseguenze possono essere assai gravi.
Il quadro è reso ancor più complesso dalla necessità di un coordinamento con l’art. 68 c.d.f. secondo il quale l’avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale e sempre che l’oggetto del nuovo incarico sia estraneo a quello espletato in precedenza e non comporti l’utilizzo di notizie acquisite in ragione del rapporto già esaurito: ovviamente deve trattarsi di notizie rimaste nel frattempo segrete e non già note al nuovo cliente attraverso altre fonti. Ancora una volta riaffiorano i temi della fedeltà al cliente e della custodia delle informazioni quali limiti sempre invalicabili, tanto che neppure il decorso di un biennio rende possibile un incarico confliggente. Anche per queste violazioni è comminata la sanzione della sospensione, a seconda della condotta, da sei mesi a tre anni: ancora una volta una sanzione molto afflittiva che ribadisce il grado di particolare sensibilità del legislatore al problema.
La giurisprudenza relativa ad analoga norma del previgente codice deontologico ha sempre rinvenuto la ratio del divieto ora espresso dall’art. 68 c.d.f. nella tutela dell’immagine della professione forense, ritenendo “non decoroso né opportuno che un avvocato muti troppo rapidamente cliente, passando nel campo avverso senza un adeguato intervallo temporale” ([1]). Beninteso, l’art. 24 c.d.f. introduce divieti all’assunzione di incarichi a fronte di possibili condizionamenti interni al professionista, mentre l’art. 68 c.d.f. riguarda fattispecie assai più definite di conflitti con gli interessi di clienti già patrocinati, ma il risultato è comunque quello di vincolare la discrezionalità dell’avvocato nel proporsi sul mercato dei servizi legali. Chi volesse pensare all’attività professionale con più marcate connotazioni imprenditoriali deve confrontarsi con questi limiti. Per di più, in sede di impugnazione di una decisione del C.N.F., già Cass. S.U. 4.11.2011, n. 22882 aveva precisato che il divieto di conflitto di interessi va inteso in senso meramente potenziale, posto che tale norma deve “evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato e, quindi, perché si verifichi l’illecito, è sufficiente che potenzialmente l’opera del professionista possa essere condizionata da rapporti di interesse con la controparte”.
Vi sono importanti ricadute anche sulla validità degli atti nel processo: infatti, ove “la difesa di due parti in conflitto anche solo potenziale di interessi sia stata affidata allo stesso legale, la parte che abbia conferito per seconda la procura al procuratore nominato dall’altra deve ritenersi non costituita in giudizio, perché un difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino o possono trovarsi in posizione di contrasto” ([2]). Se il mandato fosse conferito contestualmente, poi, nessuna delle parti rappresentate risulterà validamente costituita in causa ([3]). Quindi, al problema deontologico si associa l’invalidità dell’attività processuale, con la conseguente responsabilità civile del professionista per il risarcimento dei danni o la perdita/ripetizione dei compensi. Ulteriore dimostrazione che la deontologia non è solo una forma di galateo verso il cliente.
Sicché il rischio di prestazioni inutili per il cliente introduce il terzo livello di problemi: da un lato, secondo l’art. 1394 c.c. il contratto concluso dall’avvocato-rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Quindi il conflitto può diventare causa di invalidità del contratto negoziato dal procuratore. Dall’altro lato, il contratto stesso tra cliente è professionista è regolato dagli articoli 1176, co. 2 (obbligo di diligenza qualificata), 1175 (dovere di correttezza) e 1375 (buona fede) del Codice civile interpretati in senso ampio, come ormai ripetutamente affermato dai giudici ([4]); quindi, in ogni caso l’avvocato-mandatario è tenuto, a maggior ragione in forza della sua competenza tecnica e della sua possibilità di prevedere i rischi, a non gravare il cliente di prestazioni che possono diventare inutili o dannose.
Su un piano più prosaico, il conflitto di interessi può fondare anche una eccezione del cliente per non retribuire la prestazione dell’avvocato, o il titolo per pretendere la rifusione di pregiudizi: posto che l’avvocato ha l’obbligo di informare il cliente, l’omessa informazione del conflitto e dei suoi rischi costituisce certamente un inadempimento dell’obbligazione contrattuale (che, ricordiamo per completezza, in materia di pareri e attività stragiudiziale, potrebbe anche atteggiarsi ad obbligazione di risultato e non solo di mezzi).
2. Riflessi sull’attività nello studio legale associato.
Le premesse inducono a riflettere sui problemi dell’applicazione delle norme in questione alle forme aggregate di svolgimento della professione negli studi legali. Il riferimento anche nelle pagine successive allo “studio legale” è volutamente a-tecnico e omnicomprensivo, in quanto il tenore del comma quinto dell’art. 24 c.d.f. è talmente ampio da abbracciare ogni fattispecie di interazione, da quella più strutturata (oggi anche nella forma di società di capitali) a quella più blanda della mera condivisione di mezzi e supporti logistici, dal momento che: “Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale”. Basta la condivisione di spazi e forme di collaborazione perché operi l’obbligo, e non la mera facoltà, di astensione.
L’art. 68 c.d.f. sembrerebbe regolare fattispecie riferite al singolo avvocato; tuttavia, alcuni Consigli dell’Ordine hanno deliberato mozioni e pareri che - ravvisando la medesima ratio nell’art. 24 e nell’art. 68 c.d.f. - estendono questa seconda regola anche ai soci dello stesso studio, a maggior ragione quando l’organizzazione incassi i compensi e ripartisca gli utili, ingenerando un potenziale interesse di ciascun socio al miglior andamento degli affari degli altri soci ([5]). Un’esemplificazione può forse chiarire meglio come opera il divieto così inteso: se l’avvocato Tizio assiste la società Alfa, un altro socio Caio dello stesso studio non può assumere alcun incarico interferente con gli interessi di Alfa. Il problema potrebbe porsi, all’estremo, anche ove l’avvocato Caio voglia assistere la controllante o un socio rilevante di Alfa quando la natura delle relazioni possa incidere sull’autonomia di giudizio di anche uno solo dei due avvocati soci (si pensi sempre al rischio che lo studio abbia un proprio interesse a privilegiare il rapporto continuativo con uno solo dei due clienti, magari perché in grado di corrispondere compensi più lauti). Né Tizio potrebbe semplicemente rinunciare all’incarico in corso in favore di Alfa per consentire al proprio socio Caio di assumere un incarico interferente con gli interessi di Alfa in quanto, da un lato, Tizio violerebbe l’obbligo di fedeltà (lo stesso motivo di recesso non sarebbe giuridicamente apprezzabile) e, dall’altro, l’art. 68 c.d.f. imporrebbe comunque a Caio di attendere almeno un biennio per l’assunzione del secondo incarico ([6]).
Un simile intervallo biennale, beninteso, costituisce anche un limite imposto ai potenziali clienti di rivolgersi a determinati studi; questo aspetto, benché affiorato in alcune determinazioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, non sembra essere stato sufficientemente valorizzato nella discussione deontologica e merita forse di essere ripreso.
3. Conflitto attuale e potenziale.
Tuttavia, per tentare di districarsi in una rete di divieti così severi che gravitano attorno alle nozioni di conflitto di interessi potenziale e di segreto professionale occorre prima ripercorrere la reale consistenza di entrambi.
Fortunatamente, sempre la S.C. ha avuto modo di precisare che “il conflitto di interessi, sebbene possa essere meramente virtuale (quindi legato ad interessi anche solo potenzialmente in contrapposizione), deve essere necessariamente attuale, posto che una contrapposizione di interessi già sussistente e successivamente superata, ove tale risulti in equivocamente dagli atti processuali, non ha rilevanza così come nell’ipotesi in cui taluna delle più parti, inizialmente portatori, di interessi collidenti e distintamente costituite, abbia rinunciato alle proprie pretese in conflitto con le altre e si sia poi costituita, nel successivo grado congiuntamente alle stesse, con un unico difensore” ([7]). Viene quindi sempre negata ogni rilevanza scriminante alla volontà dei clienti in lite fra loro che decidano di affidarsi ad avvocati dello stesso studio associato, perché il termine di valutazione resta la totale insussistenza, ovvero il già avvenuto superamento del potenziale conflitto, anche per fatti concludenti. In termini pratici, però, significa anche che le parti possono rimuovere il conflitto fra esse prima di affidare l’incarico. Non si pone il problema ove due clienti, potenzialmente in conflitto, dichiarino di voler incaricare il medesimo avvocato - o avvocati del medesimo studio - perché nel caso specifico condividono lo stesso scopo. Alcuni esempi: venditore ed acquirente di un bene vogliono agire contro il terzo la cui condotta impedisca il perfezionamento o l’esecuzione del contratto di compravendita; debitore e fideiussore vogliono far fronte comune contro il creditore perché dichiarano ex ante che la pretesa creditoria è infondata ed escludono che sia controverso il rapporto interno fra garantito e garante; amministratori e sindaci convenuti in responsabilità solidale intendono respingere ogni pretesa attorea senza svolgere alcuna domanda di accertamento delle quote di debito e di regresso nel rapporto di solidarietà operante ex lege fra i danneggianti convenuti ([8]).
Per essere rilevante, la scelta operata dai clienti deve essere consapevole, pertanto l’avvocato dovrà adempiere in maniera rigorosa all’obbligo informativo, preferibilmente per iscritto per poterne fornire la prova in futuro, e la decisione delle parti dovrà essere libera; non dovrà essere l’avvocato a suggerire di precisare in causa le medesime conclusioni quale escamotage processuale al solo fine di dissimulare un conflitto ancora presente o addirittura non percepito dai clienti perché il medesimo avvocato ha omesso di illustrare tutte le conseguenze dell’esito della lite sul piano anche solamente della rivalsa o del regresso. Bensì, la scelta della comune linea di difesa dovrà rispondere ad una valutazione coerente del vantaggio tratto dalle parti. Sempre esemplificando: nell’esperienza pratica, le domande di regresso nella medesima causa finiscono per indebolire la difesa dei convenuti verso la domanda principale: chiedere al giudice di accertare in quale grado più co-amministratori abbiano causato il danno instilla nel giudice l’idea che lo stesso convenuto non confidi di poter dimostrare la propria estraneità al fatto. La scelta dei convenuti di mantenere un fronte comune rispetto alla domanda attorea può rispondere ad un apprezzabile interesse anche solo di rendere credibile una certa rappresentazione, oppure di contenere i costi di accertamenti istruttori molto complessi. Ovviamente, gli avvocati del medesimo studio che assistano parti co-belligeranti si espongono tutti all’obbligo di rinunciare ai rispettivi incarichi qualora una divaricazione risorgesse fra i clienti, nella medesima causa o in altra sede.
4. Perimetro del segreto professionale.
Anche il tema del segreto e delle informazioni si presta ad alcune precisazioni di ordine generale. Innanzi tutto, benché l’art. 68 c.d..f. parli in termini molto ampli di “conoscenza degli affari”, una lettura razionalmente orientata conduce ad escludere la rilevanza di situazioni nelle quali l’avvocato (o un suo socio di studio) in ragione di un precedente incarico abbia acquisito notizie che sono comunque già nella disponibilità del secondo cliente sopravvenuto oppure per le quali il primo cliente non abbia più un interesse. Una chiosa può essere forse dedicata alla corrispondenza “riservata e confidenziale” non ostensibile neppure al proprio cliente, perché la classificazione apposta dal mittente può ingenerare equivoci. Che debbano restare tassativamente segrete determinate comunicazioni da collega a collega è pacifico: si tratta di un’ovvietà per qualunque avvocato che non richiede esemplificazioni. Analogamente valga per le proposte transattive in corso di causa, che in ogni caso non dovrebbero condizionare un giudice anche ove acquisite in un processo. Invece, in altri casi (e quindi l’indagine deve essere specifica e circostanziata) la corrispondenza potrebbe essere classificata come riservata e confidenziale, ma recare una proposta contrattuale o informazioni economiche essenziali per un trattativa e veicolate tramite il procuratore, che come tale non è il destinatario sostanziale, né la parte della trattativa. Il procuratore opera in nome e per conto del rappresentato, quindi il contenuto sostanziale è per definizione rivolto al rappresentato. L’avvocato conserverà segreta la corrispondenza, ma riferirà i termini negoziali alla parte assistita che è l’unica a poterli valutare ed accettare. Quando tali contenuti confluiscano in un contratto destinato ad avere pubblica notorietà o soggetto a registrazione presso l’Agenzia delle Entrate risulta difficile anche continuare a parlare di un obbligo di segreto in capo all’avvocato: permane il diverso e concorrente divieto di trarre indebito vantaggio dalla disponibilità delle informazioni, ma si è fuori della logica del segreto professionale.
Quanto, poi, alla possibilità che lo studio associato si organizzi per segregare alcune informazioni affinché esse siano accessibili solo ad alcuni professionisti (c.d. chinese walls), indubbiamente i mezzi tecnici e informatici oggi disponibili rendono più facile e forse più plausibile il risultato del segreto infra-studio, ma giàin vigenza del precedente Codice Deontologico era prevalso l’orientamento più rigoroso che esclude qualsiasi effetto esimente rispetto alla sanzione deontologica perché, se la fattispecie colpisce l’avvocato per il mero rischio che lo scambio di informazioni fra soci mini la credibilità dell’esercizio professione, non c’è argomento che regga.
La logica pubblicistica di fondo - peraltro non esplicitata dal legislatore in questi termini - costituisce un problema ancor più grave per gli studi di maggiori dimensioni o di più spiccata specializzazione, i quali si strutturano proprio per fornire ai clienti prestazioni molto qualificate, anche in ambiti specialistici, cioè in settori nei quali potrebbero essere in numero ridotto tanto i clienti, quanto i professionisti ad aver maturato un’esperienza concreta (perché anche i casi precedenti sono pochi) o in grado di rispondere alla richiesta del cliente in tempi molto ristretti in situazioni molto complesse. Viene pertanto ridotta la libertà del cliente di accedere alla prestazione che lui ritenga più qualificata per la tutela dei propri interessi. La constatazione vuole restare su un piano oggettivo e non implica ancora un giudizio di merito, poiché è doveroso rammentare che chi difende la limitazione invoca uno scopo pur sempre legato alle garanzie per il ruolo dell’avvocato nel sistema-giustizia.
5. Regole per l’arbitrato irrituale e per quello rituale: primi spunti di riflessione.
Un’apparente divagazione consente di evidenziare il diverso regime applicato ad alcune attività frequentemente svolte dagli avvocati.
L’arbitrato irrituale, in particolare, è regolato dalle norme del contratto di mandato contenute nel Codice Civile, e solo marginalmente quelle del Codice di Procedura Civile. L’arbitro unico è, per definizione, mandatario di entrambe le parti. L’orientamento nettamente maggioritario afferma che l’art. 815 c.p.c. non è applicabile all’arbitrato irrituale, stante la sua natura privata e l’assenza di un principio di ordine pubblico di imparzialità dell’arbitro ([9]). Il problema sembra dunque ragionevolmente confinato all’obbligo dell’arbitro di informare tempestivamente le parti di ogni elemento che potrebbe incidere sulla sua nomina o sulla sua ricusazione, ma non necessariamente determina un’incompatibilità assoluta.
Quanto all’arbitrato rituale, invece, i requisiti di indipendenza debbono essere massimi. I casi di ricusazione sono tipizzati nell’art. 815 c.p.c. e il n. 5) la prevede “se è legato ad una delle parti, a una società da questa controllata, al soggetto che la controlla, o a società sottoposta a comune controllo, da un rapporto di lavoro subordinato o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d'opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettono l'indipendenza; inoltre, se è tutore o curatore di una delle parti”. I motivi di ricusazione, previsti dall’art. 815 c.p.c., sono tassativi e non coincidono sic et simpliciter con gli illeciti deontologici ([10]).
Se i rapporti riguardano un socio dell’arbitro, si ritorna al dettato dell’art. 24 c.d.f. in combinato disposto con l’art. 61 c.d.f. che impone di rifiutare la nomina ad arbitro al legale che eserciti “negli stessi locali” di uno dei difensori in arbitrato. Anche su questo tema in giurisprudenza si riscontrano due orientamenti: quello maggioritario ritiene che la mera condivisione dei locali dello studio non costituisce motivo sufficiente di ricusazione ([11]). L’orientamento minoritario sostiene la tesi opposta, sicché per l’accoglimento dell’istanza di ricusazione nel procedimento arbitrale, è da ritenere commensale abituale del difensore di una delle parti l’arbitro avvocato che eserciti continuativamente la professione legale nella stessa unità immobiliare ove esercita la professione anche il difensore ([12]).
Secondo la dottrina, l’attuale codice deontologico forense risulterebbe più severo del codice di procedura civile, così come interpretato dalla Cassazione e l’avvocato che accetti l’incarico di arbitro esercitando nei medesimi locali di uno dei difensori non potrebbe essere ricusato, ma commetterebbe un illecito disciplinare ([13]).
L’art. 61 c.d.f. si riferisce esplicitamente soltanto ai rapporti con una delle parti, escludendo qualsiasi riferimento alle società controllate o collegate o, comunque, facenti parte del gruppo ([14]). Tuttavia occorre considerare che il terzo comma dell’art. 61 c.d.f. impone comunque all’arbitro di comunicare alle parti ogni circostanza idonea a incidere sulla sua indipendenza, onde ottenerne il consenso all’espletamento dell’incarico. Pertanto, l’arbitro “ha quantomeno l’obbligo di avvertire le parti (e ovviamente, soprattutto, la parte diversa da quella con cui ha avuto rapporti professionali). Laddove la parte interessata non sollevasse alcuna obiezione, […] difficilmente sarà possibile sanzionare l’avvocato anche nel caso in cui la sua indipendenza paia minata. In altre parole, l’operazione informativa della parte, cui quest’ultima non reagisce negativamente, può ragionevolmente considerarsi come un’accettazione delle condizioni complessive in cui si trova l’arbitro, accettazione che renderebbe piuttosto insensata l’apertura di un procedimento disciplinare” ([15]).
L’esperienza degli arbitrati regolamentati mostra la massima attenzione delle camere arbitrali alla prevenzione di ogni possibile conflitto, anche attraverso questionari preventivi e autocertificazioni analitiche dei candidati arbitri. Infatti, sempre l’art. 815 c.p.c. esclude la revocazione se i motivi erano noti alla parte prima della nomina, quindi il valido consenso della parte è - almeno ai fini del mandato di arbitro - certamente esimente ([16]).
Può essere allora sottolineata, come tratto comune, l’importanza dell’informazione resa preventivamente alle parti coinvolte.
6. Possibile temperamento di un rigore non sempre giustificato nelle attività stragiudiziali: il superiore interesse del cliente.
Ulteriori spunti di riflessione provengono da un dato statistico: le pronunce sanzionatorie del C.N.F. e della Corte di cassazione riguardano quasi essenzialmente casi di conflitti di interessi e di utilizzo delle informazioni in pregiudizio di parti del processo civile o penale ([17]).
Allora, un simile rigore appare coerente con l’attuazione concreta sia del diritto alla giustizia ex art. 24 Cost., sia del ruolo non-meramente-privatistico dell’avvocato ex art. 2 della Legge professionale forense (l.p.f.), sia dell’obbligo di difesa tecnica: in altre parole, nel momento in cui i Codici di procedura impongono alla parte di stare in giudizio col difensore tecnico e dettano il contenuto minimo e naturale di tale mandato difensivo quale condizione di accesso al processo, è comprensibile il massimo scrupolo per garantire l’indipendenza delle scelte dell’avvocato.
Di riflesso, è possibile interrogarsi se analogo rigore si giustifichi per l’attività di consulenza stragiudiziale e di assistenza negoziale, a fronte delle limitazioni imposte al cliente nella scelta del professionista di cui avvalersi. Intanto, l’attività stragiudiziale non è riconducibile ex lege alle competenze riservate dell’avvocato, bensì resta, soprattutto in molti ambiti e con clienti molto qualificati, attività propria della parte. Il professionista presta consulenza ed eventualmente assistenza, fino ad assumere un mandato anche procuratorio, solo in quanto il cliente ne ravvisi la necessità e il contenuto del rapporto è liberamente affidato all’accordo fra cliente e avvocato (come anzidetto, il contrario di quanto avviene nei Codici di procedura). Che siano certi clienti a dettare la strategia e non certo il loro avvocato, è noto a tutti. Per di più, il Codice civile regola espressamente il mandato collettivo (art. 1726 c.c.) e contempla figure di professionisti legati intuitus personae ad entrambe le parti, fermo l’obbligo di lealtà ed equidistanza nell’esecuzione dell’incarico. In tema di compenso del prestatore d’opera intellettuale, l’art. 2233 c.c. richiama l’accordo del professionista con “le parti”, non con “la parte”, quindi sempre il legislatore ha espressamente considerato normale l’ipotesi che più clienti incarichino un unico professionista. A dirla tutta, persino in materia giudiziale v’è un caso tipico - quello della transazione che pone fine ad una causa, ex art. 13 l.p.f. - in cui ciascun avvocato ha il diritto di essere retribuito anche dalla controparte, e risulta difficile pensare che il legislatore abbia previsto quell’obbligo comune di pagare il compenso senza ravvisare un analogo interesse comune in capo a tutte le parti; un caso plastico, dunque, di convergenza di interessi di clienti prima radicalmente contrapposti, in cui la prestazione di ciascun avvocato giova anche alla controparte. Inoltre, per tornare all’ambito negoziale e dei contratti, l’interesse perseguito dal singolo cliente non ha necessariamente un rilievo costituzionale, come avviene per i diritti e gli interessi legittimi protetti dall’art. 24 Cost.. La tutela di tale interesse economico viene prima di tutto dal contratto di mandato con il proprio professionista, fonte dell’obbligo di diligenza qualificata ex art. 1176, co. 2, c.c.. Il cliente non è creditore di una prestazione (difesa in giudizio) il cui corretto svolgimento esplica effetti sul sistema-giustizia in senso ampio anche nei rapporti di lealtà verso il giudice, bensì è creditore di una prestazione libero-professionale. Dall’inadempimento il cliente può subire vari pregiudizi risarcibili ex art. 1218 c.c., ma, nella stragrande maggioranza degli affari, non vede necessariamente e immediatamente leso un proprio diritto personalissimo, costituzionalmente tutelato e indisponibile (quali potrebbero essere: la libertà personale, l’integrità fisica, un diritto politico, l’onore, etc.).
Una conferma a contrario può essere tratta proprio dall’art. 2 l.p.f., secondo il quale “fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”. Dunque, la competenza è riservata all’avvocato non tanto se l’attività è svolta in modo sistematico ed organizzato, ma se essa è “connessa all’attività giurisdizionale”. Ancora una volta ritorna il richiamo al processo e al diritto costituzionale di difesa: negli altri casi, chiunque potrebbe svolgere quelle attività e certamente non sarebbe sottoposto al Codice Deontologico, ma alle più generali regole contrattuali; non è chiaro perché un qualunque soggetto non iscritto all’Albo possa assistere più parti astrattamente in conflitto, ovvero assistere prima una e poi l’altra senza attendere un biennio, e nella medesima situazione ciò sia vietato all’avvocato.
Resta invero fermissimo il convincimento del C.N.F. che le regole deontologiche si applicano all’avvocato in quanto iscritto all’albo e non solo in quanto esercitante una prestazione riservata poiché non è pensabile, per il massimo organo di giustizia deontologica, un diverso rigore nel valutare le condotte degli iscritti in rapporto al tipo di incarico ricevuto: il Codice deontologico si applica sempre ([18]). Tuttavia, la conclusione può apparire autoreferenziale: il trattamento differenziato di casi analoghi non trova una compiuta giustificazione e la presenza della norma deontologica non rende di per sé coerente con l’ordinamento l’interpretazione datane, né la stessa norma che si vuol interpretare.
Non solo secondo la Corte costituzionale, ma anche secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la stessa esistenza di un Ordine cui gli Avvocati sono obbligati ex lege ad iscriversi è giustificata dall’esigenza di una vigilanza anche deontologica sulla condotta degli iscritti a garanzia dei clienti, in ragione dell’affidamento da loro riposto nell’avvocato (da cui si attendono fedeltà, in tutte le sue declinazioni, dalla competenza al segreto). Il riferimento alla tutela del cliente potrebbe allora, con tutte le cautele del caso, condurre ad un qualche compromesso fra gli interessi in gioco. A ben vedere, né la legge professionale, né il codice deontologico negano espressamente rilevanza al consenso del cliente e in una recente decisione il C.N.F., pur non assolvendo l’avvocato che aveva assunto un incarico contro un proprio ex-cliente prima del termine del biennio di moratoria, ha ribadito che è possibile discolparsi dimostrando che il cliente era informato e consenziente ([19]).
In effetti, pur in una logica qui molto semplificata per ragioni di concisione, si può pensare che, se il sistema ordinistico è volto a garantire la qualità della prestazione a beneficio del cliente, il consenso del cliente dovrebbe avere un effetto scriminante quando sia informato e consapevole. Se il cliente, per la sua natura intrinseca (ad esempio: un gruppo multinazionale) vuole autorizzare un avvocato ad una data prestazione a favore di un competitor se ne possono ricavare due ipotesi: è possibile che il cliente - visto l’avvocato all’opera - lo disistimi al punto da ritenere che non possa nuocerle in futuro (o che debba nuocere in pari misura anche ai concorrenti, in piena attuazione dell’art. 3 Cost.). Fuor di provocazione, è più probabile che il cliente stimi l’avvocato e lo studio al punto da ritenerli preparati, intellettualmente onesti e capaci di operare sempre con rigore, autorevolezza e autonomia di giudizio. In questo secondo caso, l’autorizzazione delle parti coinvolte appare un’attestazione delle qualità anche morali del professionista, cioè la sublimazione proprio dello scopo della vigilanza deontologica.
Si consideri che le regole deontologiche italiane dichiarano di ispirarsi al Codice Deontologico Europeo (recte: Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo), il cui articolo 3.2. non prevede affatto l’obbligo di attendere il biennio menzionato dall’art. 68 c.d.f. e non esclude il ruolo del consenso del cliente. Anzi, il Memorandum Esplicativo contempla espressamente il caso dell’assistenza prestata a più clienti i cui interessi si divarichino nel corso del mandato: secondo il Codice europeo neppure opera immediatamente l’obbligo di dismettere i mandati, bensì l’avvocato deve, in prima battuta, tentare di ricomporre il conflitto e solo successivamente dovrà lui stesso valutare se il contenuto del persistente conflitto incida sulle modalità di espletamento del mandato in corso; lo scopo sembra essere proprio quello di preservare l’utilità che i clienti si aspettavano dall’incarico congiunto e che potrebbe essere compromessa dall’interruzione della prestazione e dalla necessità di rivolgersi a nuovi avvocati dopo la rinuncia del primo. Un approccio molto distante da quello italiano, eppure risulta difficile pensare che una normativa di origine comunitaria - in senso lato e a prescindere dalla sua efficacia domestica - non costituisca almeno un importante termine di riferimento o di paragone, se non già di interpretazione delle regole nazionali.
7. Alcune ipotesi operative in equilibrio fra il decoro della professione e il diritto del cliente.
In ultima analisi, con la raccomandazione che si tratta non di regole vigenti, bensì di possibili interpretazioni per favorire la flessibilità anche sul lato della domanda dei clienti:
(i) il criterio temporale resta decisivo, nel senso che l’avvocato deve privilegiare l’incarico già ricevuto (dovere di fedeltà), declinando quelli successivi potenzialmente incompatibili con il primo ed evitando di creare situazioni di incompatibilità ex art. 24 c.d.f.; il principio pare indiscutibile tanto per il professionista, quanto per gli studi associati;
(ii) nel caso dell’attività negoziale, quando non venga in discussione un diritto personalissimo di rango costituzionale e, soprattutto, quando abbia ad oggetto negoziati convergenti verso un accordo o un contratto comune alle parti, sembra possibile ipotizzare la validità del consenso dei clienti per superare anche un conflitto potenziale (nel senso: non emerso, ma neppure già ricomposto) e per superare l’obbligo di astensione biennale, sempre che i clienti abbiano un altro interesse apprezzabile, quale potrebbe essere la decisione, dopo aver ricevuto esaustiva informazione, di scegliere avvocati dello stesso studio per le loro stimate capacità tecniche o per la prevalente volontà di chiudere l’accordo senza inutili asperità. Lo stesso consenso del cliente priva di rilevanza anche il problema della gestione del segreto e delle informazioni: in tutta evidenza, il cliente presterà il consenso perché avrà escluso il rischio di utilizzo a suo detrimento delle informazioni, diversamente lo negherà;
(iii) resta essenziale - a maggior ragione - che l’informazione sia tempestiva, chiara ed esaustiva a tutti i clienti e che il consenso sia esplicito, prestando attenzione anche al tipo di preparazione e competenza del singolo cliente, nel senso che un gruppo industriale, un massimo istituto di credito e altre realtà analoghe dispongono essi stessi, di regola, di uffici legali e di esperienze manageriali per valutare gli scenari e i rischi con assai maggior immediatezza di una singola persona fisica che magari sia priva di nozioni giuridiche; questa annotazione, beninteso, non si spinge a ipotizzare differenti classi tipologiche di clienti che tutto debbano subire o cui tutto sia concesso, bensì si limita a sottolineare che già ora lo scrupolo informativo, nella prassi quotidiana, si adegua alla natura ed alla preparazione del singolo cliente; tanto meno il cliente è strutturato, tanto più l’avvocato dovrà essere accorto nel documentare il tipo di informazione prestata e il contenuto dell’autorizzazione ricevuta (per intenderci: il fatto storico che un cliente abbia conferito l’incarico all’avvocato Caio dopo aver saputo che un suo concorrente ha già conferito un incarico connesso al primo all’Avvocato Tizio dello stesso studio ancora non prova nulla, ove i due professionisti fossero chiamati a difendersi in sede deontologica);
(iv) in ogni caso, il consenso del cliente serve già, quanto meno, come prova nei rapporti interni, ad evitare contestazioni tardive di violazione del segreto o degli artt. 1175-1375 e 1394 c.c. o discussioni parcellari, all’esito dell’incarico (discussioni magari strumentali e legate all’aspetto economico della quantificazione parcellare);
(v) per l’attività giudiziale deve prevalere un approccio più rigoroso: l’assenza di conflitti deve essere dichiarata dal cliente in concreto, attraverso la preventiva indicazione di un obiettivo che non confligge con altri e non deve essere posta dall’avvocato come condizione per l’accettazione dell’incarico (diversamente c’è anche il rischio che ex post il cliente contesti che una determinata strategia o una determinata scelta gli sono state raccomandate proprio perché l’avvocato voleva evitare l’insorgere del conflitto); è fuori discussione che più avvocati dello stesso studio non possano assistere clienti fra loro in lite nella medesima controversia e la tesi maggioritaria vieta che un avvocato dello stesso studio agisca in giudizio contro un cliente di un proprio socio, se non decorso un biennio dalla cessazione del precedente incarico, salvo espresso consenso del primo cliente;
(vi) l’attenzione e gli scrupoli, se possibile, devono restare massimi negli studi costituiti in forma di società, in quanto in essi viene mantenuta la connotazione personale della prestazione professionale (art. 4bis, co. 3, l.p.f.), ma l’orientamento prevalente ritiene che il mandato intercorra fra il cliente e la società (art. 4bis, co. 4, l.p.f.), quindi non è neppure corretto parlare di clienti di soci diversi dello studio, perchè si tratta sempre di clienti dello stesso studio. Infatti, sarebbe stato impossibile, in questo Paese, chiudere il discorso senza almeno un paradosso: si è inteso introdurre il modello societario nel settore delle professioni legali al fine dichiarato di aumentare la qualità del servizio e della concorrenza, ma poi il modello societario, per quanto già di per sé assai poco agibile, è comunque quello che sconta i vincoli maggiori in fatto di concorrenza e di conflitti.
[1]) CNF 21.11.2017, n. 180. Questa e le altre decisioni citate sono consultabili nel sita www.codicedeontologico-cnf.it.
[2]) Cass. 14.7.2015, n. 14634, ma anche Cass. 4.3.2016, n. 4313, Cass. 25.6.2013, n. 15884 e già Cass. 19.3.1984, n. 1860.
[3]) Cass. 25.9.2018, n. 22772: nel caso di specie l’appello incidentale è stato giudicato inammissibile in quanto il medesimo difensore aveva sottoscritto una sola comparsa di risposta per conto di due parti appellate fra loro in potenziale conflitto di interessi, una delle quali svolgeva appello incidentale; la successiva ri-costituzione con nuovi diversi difensori dopo l’invito della corte ha sanato la contumacia, ma non la decadenza dal gravame incidentale, poiché il termine per proporlo era scaduto con quello della comparsa di risposta ritenuta nulla.
[4]) Cass. 10.11.2010, n. 22819, in termini ormai tralatizi.
[5]) Cfr. Ordine Avvocati Milano, parere 23.2.2017 e Ordine Avvocati Roma, parere 20.11.2015, quest’ultimo in termini meno categorici e con ampia motivazione che richiama le tesi contrapposte sul tema.
[6]) CNF 16.10.2018, n. 123: “resta irrilevante il motivo per il quale la dismissione del mandato sia avvenuta, sicché il divieto previsto dall’ art. 51 CDF previgente (e, ora, dall’art. 68 nuovo CDF) resta integrato indipendentemente dal fatto che questa sia dovuta a revoca o rinuncia (CNF, 28 dicembre 2015 n. 226; CNF 13 marzo 2013, n. 35 e CNF, 18 giugno 2010, n. 37)”.
([7]) Cass. 14.7.2015, n. 14634.
([8]) Il principio era già affermato da CNF 13.9.2006: “Sebbene, in base a quanto previsto in via generale dall'art. 37 codice deontologico forense, sia vietata l'assunzione, da parte dello stesso avvocato, del patrocinio, in procedimenti distinti o connessi, di due soggetti in posizione di concreto conflitto di interessi, tale situazione non sussiste nell'ipotesi in cui, nel corso di un giudizio promosso nei confronti di altro soggetto, questi provveda a chiamare in causa un terzo, assistito in altro procedimento dal medesimo avvocato della controparte, potendo in tal caso profilarsi un concreto conflitto di interessi, con conseguente violazione del ricordato dovere di astensione, solo qualora l'avvocato svolga domande o formuli conclusioni nei confronti del detto cliente”.
[9]) Ex multis, Cass. 25.6.2005, n. 13701; Cass. 13.6.2002, n. 8472; Cass. 29.5.2000, n. 7045; Cass. 13.4.1999, n. 3609; Cass. 28.4.1995, n. 8243; Trib. Monza 1.7.2003, in Giur. milanese, 2004, 5; Trib. Lucca 23.12.2002, in Riv. arb., 2003, 333.
[10]) Ex multis: Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato, Milano, 2013, 1684.
[11]) Cass. 28.8.2004, n. 17192 richiede “una reciproca compenetrazione delle rispettive attività professionali dal punto di vista tecnico - organizzativo”; in termini analoghi: Trib. Torino 28.12.2011, in Giur. it., 2012, 2623; secondo Trib. Busto Arsizio 18.7.2000, in Giur. merito, 2002, 731, addirittura: “nel giudizio arbitrale rituale non è ravvisabile incompatibilità - idonea a giustificare istanza di ricusazione - dell’arbitro che sia collega di studio dell’avvocato difensore d’una delle parti in lite”.
[12]) Trib. Genova 4.5.2006, in Foro it., 2006, 2559.
[13]) Sangiovanni, L’avvocato-arbitro nell’art. 61 del nuovo codice deontologico forense, in I contratti, 2015, 402
[14]) Sangiovanni, L’avvocato-arbitro nell’art. 61, op. cit., 400.
[15]) Sempre Sangiovanni, op. cit., 401.
[16]) Per completezza: Cass. 20.7.2006, n. 16718, ha affermato la rilevanza deontologica della scelta di un arbitro, dopo il deposito del lodo, di assistere nel giudizio di impugnazione la parte soccombente; difficile dissentire dalla condanna.
[17]) CNF 30.9.2013, n. 165, concernente il caso di una parte civile in un processo penale assistita da un avvocato il cui collega di studio, nel medesimo processo, assisteva l’imputato. Il C.N.F. ha chiarito che “La prevenzione di tale conflitto [di interessi, N.d.R.] costituisce obiettivo generale dell’ordinamento […].La previsione del secondo canone dell’art. 37 risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato ma, altresì, alla loro apparenza; e ciò in quanto l’apparire indipendenti è tanto importante quanto esserlo effettivamente, dovendosi in assoluto proteggere, tra gli altri, anche la dignità dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone. La disciplina in questione, pertanto, si proietta alla tutela dell’immagine complessiva della categoria forense, in prospettiva ben più ampia rispetto ai confini di ogni specifica vicenda professionale; ciò giustifica, a giudizio di questo Consiglio Nazionale, la presunzione assoluta di conflitto di interessi – conchiusa nella formula del secondo canone dell’art. 37 del Codice - allorché il collegamento tra due avvocati, patrocinanti due parti aventi interessi configgenti, sia riconducibile ad un rapporto associativo ed anche solo all’utilizzo dei medesimi locali”; il valore della terzietà e indipendenza dell’avvocato è “indisponibile: neanche l’eventuale autorizzazione della parte assistita, pur resa edotta e, quindi, scientemente consapevole della condizione di conflitto di interessi, può valere ad assolvere il professionista dall’obbligo di astenersi dal prestare la propria attività. […] nel superiore interesse della giustizia, la valutazione delle condizioni di incompatibilità non possono essere rimesse alla sola determinazione discrezionale della parte processuale che vi abbia interesse, in quanto l’assistenza e la rappresentanza del difensore devono servire come strumento processuale per garantire la sostanza della difesa, la quale non può essere operativa allorché lo stesso difensore si venga a trovare di fronte a situazioni di fatto o di diritto inconciliabili”; in termini del tutto analoghi, anche CNF 9.6.2008, n. 59, ma anche CNF 30.12.2013, n. 222, concernente il caso in cui il difensore di un creditore, nel caso di procedura esecutiva, era collega di studio del difensore del debitore esecutato: anche in tal caso, si è affermato che nel caso dell’art. 37, co. 2, del vecchio codice deontologico (corrispondente all’art. 24, co. 5, c.d.f.) “non occorre verificare se la situazione di conflitto di interessi abbia avuto modo di manifestarsi in concreto. Infatti, l’assunzione del patrocinio delle parti in conflitto da parte di legali che operino nel medesimo studio, quand’anche non abbia prodotto effetti pregiudizievoli agli interessi degli assistiti, determina una situazione di pericolo per il rapporto fiduciario con il cliente, suscitando stato di disagio e comprensibile diffidenza, che si ripercuote negativamente sull’immagine stessa della professione”.
[18]) CNF 16.10.2018, n. 123: “il divieto di assumere l’incarico nei confronti dell’ex cliente, prescinde dalla natura (giudiziale o stragiudiziale) dell’attività prestata a favore di quest’ultimo, avendo più volte questo Consiglio avuto modo di ribadire che la norma di cui all’art.51 CDF previgente (come quella di cui all’art. 68 nuovo CDF) “non richiede che si sia espletata attività defensionale o anche di rappresentanza, ma si limita a circoscrivere l’attività nella più ampia definizione di assistenza” (CNF, 16 aprile 2014, n. 43 o 63), cosicché è sufficiente a integrare il divieto anche il fatto che la pregressa attività abbia avuto consistenza di mera attività stragiudiziale e non anche giudiziale (in senso adesivo, sul punto, ex plurimis: CNF, 14 aprile 2016, n. 78)”.
[19]) Sempre CNF 16.10.2018, n. 123: “…il precetto deontologico di cui all’art. 51 CDF - pur nel caso in cui l’avvocato abbia assunto un incarico contro una parte già assistita senza il rispetto dell’arco temporale del biennio e per una vicenda avente un oggetto estraneo a quello del rapporto professionale esaurito - non può ritenersi violato se l’assunzione dell’incarico sia avvenuto con il consenso espresso della parte già assistita, in quanto idoneo a liberare l’avvocato dall’obbligo deontologico imposto dalla norma (CFN, 22 ottobre 2010, 120). Il principio detto è condivisibile e va qui ribadito”. In effetti, è già singolare che il CNF torni sul tema a distanza di ben 8 anni dalla precedente decisione. Se ne può trarre la congettura che i casi specifici siano isolati e che vi siano anche rari esposti dei clienti. Ad ulteriore conferma empirica che quando il cliente è stato informato non ha poi ravvisato motivo per contestare la condotta dell’ex-avvocato.
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