FamigliaMinori
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 25/10/2021 Scarica PDF
La genitorialità omoaffettiva tra artt. 2 e 29 Cost.: la Corte costituzionale sollecita il Parlamento su questioni sensibili non solo eticamente
Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano BicoccaSommario: 1. Introduzione: i partiti sono chiamati a fare Politica – 2. Il monito della Corte Costituzionale: “non più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa”: 2.1 La sentenza n. 32 e la p.m.a. eterologa; 2.2 La sentenza n. 33 e la maternità surrogata – 3. A proposito di “maternità solidale” e di dignità: 3.1 La rilevanza della “solidarietà”; 3.2 Cosa significa “dignità”; 3.3 “Dignità” e “laicità”; 3.4 Dignità della persona e maternità surrogata – 4. A proposito del “diritto alla genitorialità”: 4.1 “La dinamica dell’affettività può generare spaccati sentimentali profondi”: genitorialità e diritto fondamentale all’identità genetica; 4.2 “Autodeterminazione procreativa”, diritto alla genitorialità e Corte costituzionale: per un diritto costituzionale non à la carte. – 5. A proposito di “apprezzamento sociale della fenomenologia considerata” e dello spazio da riconoscersi alla “giurisprudenza non costituzionale” alla stregua degli artt. 2 e 101 Cost. – 6. A proposito di “famiglia ad instar naturae”, di art. 29 Cost. e di “fallacia naturalistica”: 6.1 La “società naturale” ed il diritto fondamentale all’identità genetica; 6.2 “Società naturale” e “fallacia naturalistica”; 6.3 Art. 29 Cost. e persona umana.
1. – Introduzione: i partiti sono chiamati a fare Politica.
Il Parlamento – e dunque la Politica – è stato chiamato dalla Corte Costituzionale ad esprimersi su una questione che solo apparentemente riguarda un tema in grado di intercettare un consenso unanime, ossia l’interesse di quei minori messi al mondo all’estero ad iniziativa di coppie omosessuali che ricorrono a tecniche di procreazione medicalmente assistita (di seguito p.m.a.), ovvero a maternità surrogata, in violazione degli artt. 4, 5, 9 e 12, l. 19 febbraio 2004, n. 40.
Sul piano tecnico giuridico ci si potrebbe limitare ad osservare che il legislatore è chiamato ad intervenire sul diritto e sul rapporto di filiazione, dando piena applicazione al principio di eguaglianza tra i figli sancito dall’art. 315 c.c. Sarebbe, tuttavia, un’osservazione intrinsecamente miope e fuorviante: invero, se si considera che il diritto della filiazione è stato finora ordinato sulle direttrici dell’eterosessualità, della biologicità, della bigenitorialità, dell’unicità e dell’indisponibilità ([1]), è agevole comprendere che il problema della tutela dei bambini generati per iniziativa di coppie omosessuali può porsi in dissonanza rispetto al paradigma delineato dalla legislazione vigente, che depone per una famiglia secondo il modello “naturale”. Non può sfuggire, dunque, la delicatezza della questione: porre mano al rapporto di filiazione significa, infatti, ripensare il contesto nel quale “il minore ha diritto di crescere ed essere educato”, ossia la famiglia (art. 1, l. n. 184/1983).
Affiora così l’importanza politica del compito cui si deve accingere il parlamento. Esso diviene evidente quando si tenga conto della dimensione sociopolitica della famiglia. Nello spazio di queste note non è ovviamente possibile – e forse non è neppure necessario – dar conto della ampissima letteratura esistente sui profili giuridici, sociologici e antropologici ecc. della famiglia ([2]). Qui è sufficiente prendere atto che, pur nei diversi orientamenti, non sembra aver perso validità l’osservazione di chi indicò nella famiglia la “cellula primaria necessaria di vita sociale, principium urbis, in cui l’uomo trova il primo impulso per educarsi al sentimento della solidarietà” e per questo motivo gli artt. 29 e 30 Cost. ne “confermano la posizione istituzionale di privilegio” ([3]).
Non è difficile cogliere i motivi di sostanziale condivisibilità di queste parole, su cui tanta letteratura è germogliata: la famiglia rappresenta il momento primario di relazione degli individui con il mondo, al tempo stesso “cellula fondamentale dell’individuo”, fondativa della sua psiche, e “cellula fondamentale della società”. Per questa sua importanza per gli individui – uti singuli e uti socii – la famiglia è luogo di aggregazione primaria e secondaria e per tale via si costituisce quale principium urbis, assumendo un “ruolo politico” nella società. Si comprende così l’importanza della sua disciplina: essa “svolge una funzione costitutiva [della società medesima, in quanto] attraverso di essa il sistema politico comunica all’esterno i modelli di vita familiare che è opportuno o desiderabile adottare” ([4]). In altre parole, malgrado la “famiglia” non sia un istituto astorico, ma al pari di ogni vicenda umana sia un fenomeno storicamente determinato, rimane costante la sua peculiarità di essere la cellula fondamentale dell’organizzazione sociale: “il suo regime giuridico … disciplina i rapporti interpersonali, sessuali e intergenerazionali, in tal modo strutturando precise relazioni di potere tra i generi e costruendo identità e ruoli sociali che coinvolgeranno gli individui ed i gruppi fino ad incidere sulla fisionomia delle comunità nazionali” ([5]).
Di qui due conseguenze: in primo luogo, la rilevanza politica rivestita dalla materia sulla quale oggi il Parlamento è chiamato a legiferare; in secondo luogo, la necessità che la Politica prenda posizione sul punto, in base alle valutazioni prevalenti in Parlamento e nel Paese se ancora intende essere tale, ossia espressione e, al tempo stesso, governo della società. Più precisamente, essa è chiamata a stabilire se e fino a che punto la necessaria tutela dei minori di fatto presenti nelle coppie omogenitoriali implichi la rinuncia al modello di famiglia quale stabile comunione spirituale e materiale di individui di sesso diverso.
Qui si intende verificare se e fino a che punto talune affermazioni e argomentazioni presenti nel dibattito limitino la discrezionalità della Politica medesima nel delicato compito che l’attende.
Innanzi tutto, vediamo di che cosa stiamo parlando.
2. - Il monito della Corte costituzionale: “non più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa”.
2.1 – La sentenza n. 32 e la procreazione medicalmente assistita eterologa. Con la sentenza n. 32 del 9 marzo 2021 la Corte costituzionale ha invitato il Parlamento ad intervenire “al più presto” sulla situazione nella quale versano i minori nati da procreazione medicalmente assistita (di seguito p.m.a.) praticata all’estero da coppie omosessuali in violazione delle norme che la escludono per coppie di questo tipo (artt. 4, 5 e 12, l. 19 febbraio 2004, n. 40) ([6]).
Nel caso esaminato dalla Corte costituzionale la questione si è posta allorché, cessata la relazione di coppia, la c.d. “madre gestionale” ([7]) ha negato il consenso richiesto dall’art. 46, l. 4 maggio 1983, n. 184, a che il c.d. “genitore intenzionale” procedesse alla “adozione [del minore] per casi particolari” prevista dall’art.44, primo comma, lett. d, ([8]). Tuttavia, ha osservato la Corte, questo tipo di adozione non stabilizza il rapporto già sorto in fatto tra il minore e il c.d. “genitore intenzionale”, con la conseguenza che è compromesso il diritto del minore “alla identità affettiva, relazionale, sociale, fondato sulla stabilità dei rapporti familiari e di cura e sul loro riconoscimento giuridico”. In altre parole, nel presente quadro giuridico il minore, qualora abbia consolidato nel tempo un rapporto di affetto e di cura con il partner del c.d. “genitore biologico”, vedrebbe messo a repentaglio tale rapporto affettivo, con possibile venir meno delle certezze esistenziali ed affettive necessarie alla costruzione della sua identità personale e più in generale della sua personalità ([9]).
A differenza di quanto avvenuto con la sentenza 4 novembre 2020, n. 230 ([10]), alla Corte costituzionale il rimedio dell’“adozione in casi particolari” non basta più. La Corte ne pone in evidenza i limiti che comunque questo tipo di adozione presenta: essa, infatti, non conferisce al minore lo status di figlio legittimo, non determina un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante e non interrompe i rapporti con la famiglia d’origine. Ne segue che un “ritocco” ai soli artt. 44 e 46 non sarebbe sufficiente. La sentenza n. 32/2021, infatti, “auspica una disciplina della materia che, in maniera organica, individui le modalità più congrue di riconoscimento dei legami affettivi stabili del minore, nato da p.m.a. praticata da coppie dello stesso sesso, nei confronti anche della madre intenzionale”.
La posizione della Corte Costituzionale è, dunque, chiara: essa prende atto della condizione giuridica deteriore dei minori, che – come nel caso esaminato dalla Corte, ma non solo in quel caso – siano stati generati a seguito di una procreazione medicalmente assistita eterologa praticata da coppia omosessuale costituita da due donne (nel caso della coppia omosessuale costituita da due uomini i problemi si aggravano: v. infra § 2.2): i minori, pur evidentemente estranei alle modalità concrete della loro venuta al mondo, non godono degli stessi diritti di tutti gli altri nati e ciò accade a causa dell’orientamento sessuale delle persone che hanno posto in essere il progetto generativo loro riferibile. Di qui – ha concluso la Corte - la non coerenza con gli artt. 2, 3 e 30 Cost.
2.2 – La sentenza n. 33 e la maternità surrogata. Con la coeva sentenza del 9 marzo 2021 n. 33 la Corte Costituzionale ha parimenti dichiarato “indifferibile” l’intervento del legislatore per un aspetto collegato per più versi al precedente. In particolare, in questo secondo caso “viene al pettine” il nodo del riconoscimento e della conseguente recezione, nei registri dello stato civile italiano, del provvedimento con il quale all’estero è stato disposto l’inserimento del c.d. “genitore di intenzione non biologico” negli atti dello stato civile del minore generato con la pratica della “maternità surrogata”. Anche in questo caso, dunque, la questione sottoposta alla “indifferibile” attenzione del Parlamento riguarda i bambini messi al mondo ad iniziativa di coppie omoaffettive in violazione della legge esistente.
Più precisamente, se nella vicenda esaminata in par. 2.1 viene in questione la riserva dell’adozione alle coppie eterosessuali e la conseguente necessità per la coppia omosessuale di ricorrere alla “adozione in casi particolari” attraverso le oggettive forzature del testo legislativo rilevate dalla dottrina richiamata in nota 8, nel caso esaminato dalla sentenza n. 33 il quadro si fa assai più problematico. In questi casi, in particolare, è violato il divieto di ricorso alla maternità surrogata ([11]) sancito dall’art. 12, comma 6, l. 19 febbraio 2004, n. 40, con la reclusione fino a due anni e la multa fino ad un milione di euro.
Anche in questo caso le ricadute non sono lievi. E coinvolgono più esseri umani: il neonato, l’eventuale “donatore” dello sperma, la donna o le donne che si prestano alla “donazione” dell’ovulo e alla gestazione. Per quanto riguarda il bambino, la sua attuale non inscrivibilità nello stato civile italiano ha riflessi negativi su aspetti essenziali della sua esistenza: “dalla cura della sua salute alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari” (sentenza ult. cit. par. 5.4).
Come si è anticipato, nell’ipotesi di coppia di omosessuale maschile le criticità aumentano: invero, il ricorso obbligato alla maternità surrogata lede valori che – già evocati dalla Corte costituzionale con sentenza 18 dicembre 2017, n. 272 ([12]) - sono oggi ribaditi dalla Corte stessa: “la pratica della maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, aggiungendo che “gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell'esclusivo interesse dei terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita”.
3. – A proposito di maternità surrogata “solidale” e di dignità.
3.1 – La rilevanza della “solidarietà”. Viene così in primo piano un puntocruciale: quale rilievo assegnare al tema della dignità delle persone nelle questioni in esame? Tenuto conto delle contestazioni ricevute dal concetto di “dignità”, ha ancora senso farvi riferimento? Ed anche a voler ammettere una persistente utilità del concetto, la sua fruibilità viene meno in alcuni casi? Anche recentemente, ad esempio, si è ribadito che le riserve enunciate nel precedente paragrafo in tema di surrogazione di maternità non dovrebbero riguardare la c.d. “maternità surrogata solidale”. Tale assunto viene proposto per la necessità di assecondare la scelta – definita “incoercibile” – delle coppie omosessuali di divenire genitori, la quale sarebbe diretta espressione della libertà di autodeterminarsi radicata sugli artt. 2, 3 e 31 Cost. ([13]). Per il momento non si intende entrare nel merito dei parametri costituzionali di tale scelta e della sua “incoercibilità”: questo aspetto sarà affrontato nel successivo par. 4. Ora si affronta la questione dalla possibilità di introdurre un trattamento differenziato per la c.d. “surrogazione di maternità solidale”, ossia nell’ipotesi di surrogazione di maternità in cui si assume che non viene versato alcun compenso alla madre surrogata.
In via preliminare non ci si può esimere dall’osservare che – a tutto voler concedere – l’assunto della liceità della surrogazione solidale di maternità, più che risolvere il problema, lo sposta sul terreno dell’accertamento dell’effettiva natura “solidale” del patto di maternità surrogata: se si assume che il patto “solidale” sarebbe estraneo al divieto di cui all’art. 9. L. n. 40/2004, tale carattere del patto stesso diventa elemento essenziale per la liceità del medesimo, con la conseguenza che dal suo accertamento non si potrebbe prescindere, tenuto conto dell’apicalità degli interessi in gioco.
Tralasciando per un momento quest’ultimo aspetto e rimanendo sul tema dell’accertamento della natura solidale del patto in discorso, non può non rilevarsene la difficoltà. Tale accertamento, infatti, non potrebbe non essere improntato a particolare rigore in vista della necessità di superare le perplessità sui reali motivi che inducono una donna a disporre del proprio corpo in modo così incisivo in forza di un intento di “solidarietà” particolarmente intenso ed esteso. Queste perplessità sono destinate ad incrementarsi quando si tenga conto che pure le ricerche meglio disposte nei confronti dei rapporti gratuiti hanno dovuto prendere atto delle evidenze ricavate “sul campo” (come dicono gli antropologi), secondo le quali la propensione verso scelte altruistiche decresce sensibilmente con l’aumento dei costi (anche emozionali) atteso dalle scelte medesime ([14]). Ci si approssima, così, al punto che qui interessa, vale a dire il costo umano emozionale affrontato dalla madre gestionale nel momento in cui le viene richiesto di abbandonare il figlio che ha partorito in favore di una coppia assolutamente sconosciuta ed estranea alla donna, con la quale verosimilmente non avrà altri rapporti nel tempo successivo all’esecuzione del patto stesso ([15]). A questo punto si comprendono le perplessità: è mai credibile che una donna affronti un costo così significativo in forza di una affectio verso sconosciuti?
Queste considerazioni, la cui fondatezza è confermata dalle crescenti perplessità a livello internazionale sulla maternità surrogata “solidale” ([16]), spiegano i motivi per i quali in alcuni paesi la surrogazione “solidale” è consentita solo se la madre gestionale è parente stretta della madre intenzionale.
Quanti hanno ritenuto di poter prescindere da questi aspetti, hanno intravisto nella “solidarietà” del patto un elemento di per sé giustificante della condotta. Si è sostenuto al riguardo che “alcuni comportamenti … se compiuti con il fine di lucro, si pongono in palese contrasto con il rispetto dovuto alla dignità umana, mentre, se ispirati alla solidarietà, non soltanto possono essere ritenuti privi del carattere dell’indegnità ma, anzi, possono venire riconosciuti come meritevoli e, come tali, protetti: l’esempio paradigmatico è costituito dalla donazione degli organi o del sangue” ([17]).
Sennonché, le cose potrebbero non essere così semplici.
Per un verso, infatti, si rischia di non cogliere fino in fondo sia la “forza identitaria”, il “differente grado di identificazione percettiva”, la diversa “dimensione psicologica” delle differenti parti e funzioni del corpo ([18]). Al riguardo, motivi di riflessione provengono dall’epigenetica ([19]), che ha evidenziato la particolare rilevanza assunta dalla gravidanza sul piano genetico: ad esempio, è scientificamente provato che il sistema endocrino materno determina le componenti fisiologiche del corpo fetale, la sua futura capacità mentale, la suscettibilità alle malattie, la struttura neurologica, oltre che una serie di complesse funzioni anatomiche. L’ambiente ormonale uterino scatena infatti lo sviluppo di attività genetiche del feto che, altrimenti, in presenza di un altro sistema endocrino, non sarebbero provocate; ogni neonato è unico per struttura e funzione organica in base alla cascata ormonale che ha sperimentato durante la gravidanza. ([20]).
Questi dati - come si diceva - fanno riflettere. Essi sembrano assegnare un radicamento biologico specifico all’intenso legame tra madre e figlio, così da sostanziare quei parametri descrittivi (“forza identitaria”, “identificazione percettiva”, “dimensione psicologica”) elencati dalla dottrina appena ricordata a proposito del diverso significato assunto dalle parti del corpo.
Ulteriori ombre sono state gettate sulla c.d. surrogazione solidale: vi è, infatti, chi ha parlato in questi casi di “retorica del dono”, funzionale solo a “nuove o rinnovate occasioni di sfruttamento delle donne” nell’ambito di un “processo di decostruzione della donna trasformata in materiale organico” ([21]).
A fronte di tutto ciò, la presenza o meno di un corrispettivo non incide sulla posizione in cui oggettivamente vengono a trovarsi madre gestionale e figlio: la prima, anche se non è retribuita, resta una “incubatrice naturale”, la cui rilevanza genetica, a questo punto, ne incentiva l’attenta selezione accentuandone così la strumentalità; il secondo è comunque sottratto alla madre naturale e al legame che ve lo lega.
3.2 – Cosa significa “dignità”. I rilievi appena formulati riportano in primo piano le obiezioni di fondo mosse ad ogni ipotesi di maternità surrogata: essa – si è osservato all’unisono con la Corte Costituzionale – “è lesiva della dignità della donna e delle donne perché riduce la persona a corpo, ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata per contratto a non appartenerle mai; è lesiva della dignità del bambino in quanto lo rende vittima di un processo di reificazione e quindi di cessione, recidendo un legame di primaria importanza per il suo sviluppo” ([22]).
Riemerge, così, nel discorso una parola, che – benché presente nella riflessione occidentale fin da epoca romana ([23]), quando peraltro ci si muoveva su premesse aristoteliche ([24]) – svolge un ruolo cruciale nell’odierno dibattito nel e sul biodiritto ed è per questo motivo al centro di accese discussioni in tutto il mondo ([25]): mi riferisco alla parola “dignità”.
Sull’importanza del concetto veicolato da tale “parola-simbolo” non v’è necessità di soffermarsi: è stato da più parti ricordato come non vi sia riflessione sulla multiculturalità, sul concetto di famiglia, sull’“inizio” e sulla “fine” della vita, sulla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sugli altri temi di particolare delicatezza della bioetica, che non richiami espressamente il valore essenziale della dignità dell’essere umano, che è spesso invocata per sostenere ciascuna delle posizioni contrapposte ([26]).
Alla pluralità e versatilità degli usi corrisponde inevitabilmente l’attribuzione al lemma in discorso di significati non sempre perfettamente coincidenti tra loro, che peraltro si accavallano nel tempo anche a causa delle esigenze di volta in volta storicamente avvertite ([27]). Così, per un verso la parola “dignità” è stata utilizzata per caratterizzare tanto l’unicità del genere umano tra gli esseri viventi, quanto l’unicità di ciascuna persona.
L’essere umano, si è rilevato, è capace di pensare sé stesso, di darsi dei fini e di perseguirli secondo un piano preorganizzato, nonché di relativizzare tali fini tenendo conto anche di altri soggetti (umani e non umani) e dei loro interessi. In questo senso è stata letta la rappresentazione che l’uomo periodicamente ha dato di è stesso come “immagine di Dio” e della dignità come qualcosa di sacrale, un concetto “metafisico-religioso” ([28]), che è stato declinato già dai primi commentatori della Genesi sia in termini di [...], sia in termini di libertà, quali doti specifiche dell’essere umano ([29]). Questa caratterizzazione iniziale dell’essere umano è stata esplicitamente confermata nella filosofia kantiana, che tanta parte ha avuto nella fondazione culturale dell’attuale uomo occidentale: la persona umana è l’unico essere vivente in grado di sottrarsi al determinismo, alla legge causale, che governa la natura. In questa potenzialità di scelta, in cui si sostanzia la libertà, essa si caratterizza come “fine” e non può mai divenire strumento, “cosa”, piegata alla realizzazione di fini e aspirazioni altrui ([30]).
Questa cesura ontologica tra essere umano e mondo delle cose, che per certi versi approssima il tema sempre aperto del rapporto tra uomo e natura, tanto da emergere anche nella Genesi, ha trovato recentemente un’eco in chi ha accennato ad una particolare “attenzione cognitiva alla dinamica interna al processo vitale”, che si traduce in concreto nel maggiore rispetto che si manifesta “quanto più la specie trattata si avvicina alla specie umana”: si assiste – si precisa – in “soglie di inibizione” maggiormente crescenti quanto più si avverte il “carattere vulnerabile della vita organica”. Tale maggiore rispetto – si è proseguito – “si fonda sulla nostra sensibilità corporea e sul fatto che anche i livelli più elementari di soggettività si differenziano dal mondo degli oggetti fisici manipolabili” ([31]).
Per tale via viene recepita una nozione di dignità apparentemente più completa: non è più relazionata solo al [...], ma all’essere umano in quanto tale, alla specifica soggettività del suo “materiale organico”. Così articolata, essa concorre a comporre lo statuto antropologico della persona umana e, nella sua assolutezza, salda le dimensioni antropologica ed ontologica dell’uomo. Essa si traduce sul piano giuridico, in primo luogo, nella predisposizione di uno scudo normativo di intangibilità per ciascun essere umano, con evidente consolidamento del principio di uguaglianza.
Un modello significativo di questa prospettazione della dignità è costituito dall’art. 1 Cost. tedesca, il quale stabilisce che “la dignità dell’uomo è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di tutto il potere statale” ([32]). Sul piano normativo, dunque, la dignità si profila innanzi tutto come “rispetto” e la sua intangibilità non riguarda solo il potere statale: la dignità, proprio perché strutturale al complesso statuto antropologico della persona, è indisponibile anche per i singoli diretti interessati, in quanto è connessa con il rispetto di sé, che a sua volta è collegato con il “rispetto che gli altri hanno di me”.
L’attenzione al rapporto tra “me e l’altro” in forza della comune “dignità” apre la via ad un ulteriore significato della parola, che “ha a che fare con l’interazione sociale” ([33]). Indici normativi di questa versione della “dignità” possono trarsi dalla Costituzione italiana. La dignità – pur non mancando di essere connessa alla persona umana e al suo rispetto (art. 32 Cost.) – è espressamente riferita alla dimensione sociale dell’uomo, all’essere egli soggetto agente e relazionale all’interno di una collettività: nella Costituzione italiana la dignità diviene “dignità sociale” (art. 3) e consiste nel rispetto che ciascun componente dell’organizzazione collettiva deve ricevere in quanto inserito nella comunità politica, ossia in un gruppo di individui aventi un nucleo fondativo di base caratterizzato da cultura e fini condivisi. L’art. 36, inoltre, stabilisce il diritto ad una retribuzione che garantisca al cittadino-lavoratore – che è la figura antropologica delineata dagli artt. 1 e 4 Cost. ([34]) – “e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.).
Le disposizioni costituzionali richiamate arricchiscono lo statuto antropologico-ontologico della persona. Non v’è più solo l’uomo considerato nella sua astratta razionalità: l’uomo è “degno” in quanto civis e homo faber; di fronte alla sua dignità arretra la stessa attività economica (art. 41 Cost.). Il quadro è così maggiormente definito: l’essere razionale è “degno” non solo in astratto, per il fatto di possedere la “scintilla di Dio”, ma anche perché e quando si completa nella [...] e così concorre “al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 Cost. it.) in un processo economico-politico che comunque lo vede al centro del progetto (artt. 3, comma 2, e 41 Cost.).
In questo contesto un ulteriore elemento merita attenzione: i parametri (significativamente ancora una volta associati) della libertà e della dignità sono declinati sul piano del tutto concreto dell’esistenza e sono destinati a riempirsi di contenuti specifici sulla base delle condizioni economico-sociali e sulle esigenze di vita maturate anche culturalmente in ciascun momento storico.
Tale prospettazione socioculturale della dignità – tutta proiettata sulla società e sulla collocazione dell’individuo all’interno di questa - ha ricevuto svolgimenti importanti. Essa non è più declamata quale dote naturale, posseduta dagli uomini per il solo fatto di essere tali. Con un sensibile mutamento d’orizzonte, la dignità diviene una variabile socio-culturale bisognevole di una costante riformulazione, dal momento che – si osserva – è nei fatti così poco «intangibile» che l’uomo la può acquistare o perdere, quando e come si autorappresenti come partner dell’interazione sociale. Momento sociale e momento individuale della dignità tendono a questo punto a sovrapporsi: “così interpretata la dignità … ha a che fare con quel processo di individualizzazione dell’autorappresentazione mediante il quale l’uomo, in comunicazione con altri uomini, acquista consapevolezza di sé, diventa persona ed in tale modo si costituisce nella sua umanità” ([35]).
Nella prospettiva ora in esame si viola la dignità ogni qualvolta ci si intromette nell’ambito - al tempo stesso privato e socialmente condiviso - della autorappresentazione ([36]), che non si esaurisce mai in un momento di esclusiva intimità, ma – come insegna l’esperienza di ciascuno - si definisce sempre nell’interazione del singolo individuo con le sfide e gli ostacoli costantemente proposti dalla società.
Questa proiezione sociale della dignità – che a ben vedere costituisce il presupposto sostanziale di fondo della tutela della riservatezza e della protezione dei dati personali - contiene in sé le premesse per un’ulteriore evoluzione del suo significato. Invero, se la dignità è il frutto di un processo continuo di costruzione del “sé” nella società, deve necessariamente essere riferita, non già ad un soggetto astratto, ma ad un individuo concreto, considerato, per di più, nella specificità della sua esistenza quale si determina nelle diverse fasi della sua vita dal concepimento in poi ([37]) e tenendo conto degli ostacoli di ordine economico sociale che egli inevitabilmente incontra.
Con un ulteriore corollario: la dignità e la libertà, che l’uomo ha di fatto, non è quella di essere indipendente dai condizionamenti materiali e biologici, che in definitiva lo definiscono come persona, quale essere umano irripetibile nella sua individualità: la dignità – si ribadisce - non vive in una incomprensibile dimensione astratta, ma nella concretezza dell’esistenza ([38]), definita fin dalle caratteristiche genetiche, anch’esse, quindi, tutelate in nome della dignità (v. infatti art. 2, Sez. A, Dichiarazione universale diritti dell’uomo, 1948).
3.3 - “Dignità” e “laicità”. La sommaria “carrellata” fin qui condotta delle diverse (ma sempre in qualche modo connesse) accezioni storicamente elaborate a proposito della dignità merita qualche precisazione ulteriore. In primo luogo, come si è già accennato, le diverse teorizzazioni non si contrappongono con granitica necessità l’una contro l’altra; al contrario, assai spesso esse coesistono a comporre un caleidoscopio complesso tra le varie sfumature di significato, segnando la specificità e la complessità operazionale del principio di dignità ([39]).
Altro elemento che si scorge facilmente nell’assai sommaria esposizione sopra esperita, è la variabilità – e dunque l’oggettiva indeterminatezza - del contenuto da assegnare alla parola “dignità”. Ciò ha in qualche modo agevolato facili scorciatoie verso una sorta di delegittimazione del concetto, che, da strumento operativo del dibattito sulla bioetica e sul c.d. biodiritto, viene descritto alla stregua di un orpello predato da inappropriate influenze della religione ([40]): il concetto di dignità sarebbe privo di significati diversi da quello di rispetto della persona, il quale si declinerebbe nella necessità di ottenere un consenso volontario e informato, nella riservatezza sul trattamento e nel divieto di discriminazioni e di pratiche abusive ([41]).
È evidente la matrice culturale, da cui trae origine questa posizione: essa va rinvenuta nella tradizione nordamericana in materia, radicata su quel “diritto inalienabile al perseguimento della felicità” individuale (art. 1 Dichiarazione di indipendenza del 1776), che talora è tracimato anche in un esasperato individualismo. È una posizione che non sembra tener adeguatamente conto che la parola “dignità”, lungi dall’essere necessariamente espressione di un punto di vista confessionale, traghetta sul piano operativo quel complesso statuto ontologico-antropologico della persona umana, sul quale la studiosa americana sopra citata ed i suoi epigoni sostanzialmente omettono di confrontarsi malgrado sia difficilmente contestabile che la persona umana delineata da quello statuto sia direttamente coinvolta nelle vicende giuridicamente rilevanti.
Per quanto riguarda, poi, le perplessità sull’asserita assenza di un significato preciso della parola in esame e dei concetti da essa veicolati, deve darsi atto che la particolare vaghezza della parola “dignità” ed il conseguente contenuto “aperto” delle disposizioni che la contengono, non è uno “scandalo” in Europa, ma la banale espressione di una tecnica legislativa, adottata quando il legislatore – pur dettando le coordinate valoriali sulle quali deve allinearsi la decisione - intende demandare all’interprete la deduzione della norma nel singolo caso concreto ([42]). Il giurista italiano è consapevole di questo aspetto ed evita pregiudiziali rifiuti verso il principio di dignità, preferendo talora ancorarne il contenuto solo a quelle norme dalle quali possa trarsi un “indizio di legittimazione culturale diffusa e storicizzata”, onde distinguere la nozione di “dignità” in ipotesi meritevole di accoglimento da quella desunta da “visioni morali ben caratterizzate sul piano religioso o ideologico, in contrasto col principio di laicità” ([43]).
In quest’ultimo approccio non si può non cogliere l’elemento positivo costituito dalla consapevolezza che, nella determinazione del contenuto operativo del principio di dignità, l’elemento culturale svolge un ruolo determinante, dal momento che quest’ultimo contribuisce alla definizione e al completamento di quello statuto antropologico-ontologico della persona, cui sopra si è accennato. Lo spunto non sembra invece poter essere condiviso quando sconfina nell’autoreferenzialità e nell’apoditticità, che sono agevolmente rinvenibili nella distinzione tra “visioni morali ben caratterizzate sul piano religioso o ideologico, in contrasto col principio di laicità”, alle quali si contrapporrebbero non meglio definite visioni diverse, di per sé invece apprezzabili secondo l’orientamento in esame, in quanto munite di una “legittimazione culturale diffusa e storicizzata”.
È evidente che una contrapposizione di questo tipo presenta delle difficoltà già a causa dei termini scarni in cui è prospettata, tanto più se si ha riguardo all’intrinseca polivalenza semantica della parola “laicità” ([44]). Qui non è necessario soffermarsi su tale posizione se non per rilevare che – a tutto voler concedere - rimane non pienamente convincente l’asserito momento di contraddizione tra “principio di laicità” – inteso ad esempio responsabilizzazione di ciascuna persona in nome dei principi di libertà, eguaglianza e fraternità come punti cardinali di orientamento ([45]) - e una nozione dell’essere umano qualificato da “dignità” e così definito quale ente meritevole di un rispetto che, per non essere mera declamazione, deve almeno concretizzarsi nella necessità che ciascuno resti un “fine”, nel senso che si è detto, e non uno “strumento” funzionale ai desideri di altri esseri umani, dal momento che la relazione con questi ultimi contribuisce a scriverne la “dignità” ([46])
3.4 – Dignità della persona e maternità surrogata – Tutto ciò conferma la complessità operativa del concetto di dignità, che per di più è soggetto a complicarsi ulteriormente in forza delle tradizioni culturali storicamente prevalenti nelle varie aree geografiche. Ne segue la necessità di adottare un metodo quanto più “pragmatico” possibile, orientato a verificare se e come quello statuto antropologico-ontologico della persona umana sopra accennato sia in grado di rispondere all’interrogativo che qui in concreto si pone, vale a dire se possa dirsi compatibile con il principio di dignità la decisione della madre gestionale di mettere il proprio corpo a disposizione di quanti desiderino soddisfare la loro aspirazione alla genitorialità attraverso il ricorso alla maternità surrogata.
In proposito, non sembrano aver ricevuto adeguata replica le osservazioni secondo le quali nella surrogazione di maternità la donna è ridotta ad “incubatrice naturale”, a “materiale organico”, funzionale alla produzione di altro materiale organico: sotto questo profilo non è un caso che i sociologi si siano riferiti ai bambini nati per maternità surrogata come a “prodotti di interventi tecnologici” ([47]). Il processo di reificazione degli esseri umani in vista della soddisfazione dei desideri di altri esseri umani è palesemente confermato dalle conseguenze che è possibile trarne sul piano giuridico: ci si è chiesti se l’attività della donna volta al “compimento dell’opera” non assuma una rilevanza giuridica tale da far propendere per la configurazione di un contratto d’opera ovvero di un contratto di appalto; come pure ci si è interrogati sulla operatività di un riferimento alla vendita o alla donazione ([48]); e non è mancato chi ha dubitato se la vicenda non sia addirittura riconducibile ad un’ipotesi di “schiavitù temporanea” ([49]).
In ogni caso al giurista si pone una stringente alternativa: o si tratta di accordi dal problematico coordinamento con gli artt. 1322, 1343 e 1346 c.c., oppure non resta che prendere atto che esseri umani divengono quanto meno oggetto di contratto e di diritti trasferibili.
Questo quadro complessivo non sembra superabile – come taluno ritiene – con il richiamo alla autodeterminazione della donna, che nella sua autonomia accetterebbe per corrispettivo o per “spirito di liberalità” di prestarsi alla maternità per surrogazione. Resta, infatti, confermato un dato: tale scelta impatta direttamente su esseri umani, vale a dire la stessa decidente e il bambino che nascerà. In questi casi, che al pari di altri coinvolgono la persona umana ed il rispetto che le è dovuto, è la stessa Costituzione ad escludere l’insindacabilità delle scelte dei diretti interessati e la loro autodeterminazione: l’art. 41 Cost. esclude che l’attività economica possa svolgersi in contrasto con la dignità umana e con ciò sottrae le relative valutazioni alla discrezionalità di quanti ne consentissero lo svolgimento in cambio di un qualsiasi vantaggio; non diversamente, l’art. 36 Cost. esclude una libera scelta del lavoratore nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia disposto ad accettare una retribuzione ritenuta oggettivamente al di sotto delle “normali esigenze di vita” (questa era la formula a suo tempo presente nella Dichiarazione II della CdL) sua e della sua famiglia.
Deve aggiungersi che una conclusione di questo tipo non può stupire. È generalmente accettato che la libertà di autodeterminazione nella gestione dei propri interessi sia limitata dal legislatore attraverso le valutazioni politiche sottintese nell’art. 810 c.c., ossia attraverso l’esclusione che determinate cose possano essere oggetto di diritti, con conseguente sottrazione delle cose medesime alla disponibilità degli individui. Orbene, è singolare che una severità analoga sia rifiutata quando le libere scelte abbiano ad oggetto (nel senso letterale del termine, come si è appena detto) esseri umani; è singolare, in altre parole, che la commerciabilità delle cose sia pacificamente ritenuta soggetta ai limiti posti dalla legge e dunque dalla politica, mentre al tempo stesso si declama che legge e politica non abbiano voce in capitolo in tema di “commerciabilità dei corpi”.
4. – A proposito del “diritto alla genitorialità”.
4.1 - “La dinamica dell’affettività può generare spaccati sentimentali profondi”: genitorialità e diritto fondamentale all’identità genetica. Non può sfuggire lo sfondo drammatico su cui si innestano le vicende recate all’attenzione del Parlamento dalla Corte costituzionale: vi sono innanzi tutto soggetti dilaniati dal desiderio di genitorialità, il quale appare dettato da un’ansia di “normalità”. Vi sono poi persone che donano gameti e che forniscono una “prestazione” dal contenuto molto particolare riassumibile nelle parole “dare la vita”. Ed ancora vi sono persone che vengono al mondo con il crisma della scissione tra genitori naturali e genitori “intenzionali”. Si delinea così la drammatica situazione sintetizzata recentemente con le parole riportate nel titolo di questo paragrafo ([50]). Con esse si allude a conflitti cruciali, che presentano “tensioni irrisolte … a livello culturale [e] relazionale” ([51]), per la soluzione delle quali “mancano carte di navigazione e codici condivisi non solo a livello culturale, ma psichico” ([52])
Di tutto ciò l’ordinamento – a sua volta chiamato “ad una tragica scelta … tra verità parziali” – non può non tener conto.
Sono questioni ampiamente studiate dalla dottrina giuridica ([53]) ed in queste note non è possibile ripercorrere analiticamente tutte le posizioni in tutte le loro sfaccettature. Qui interessa piuttosto richiamare i termini essenziali di quegli “spaccati sentimentali profondi” evocati nel titolo del paragrafo, in quanto è anche di questi drammi esistenziali che la Politica deve tener conto.
Da un lato vi è l’incisiva aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali: si è preso atto che nella prospettiva della c.d. “rivoluzione arcobaleno” si fanno sempre più diffusi “gli inviti a dare due mamme o due papà ai figli dell’altra metà del cielo” ([54]). Ad avvalorare queste aspirazioni si teorizza una superiorità intrinseca della famiglia omogenitoriale; si invocano, in proposito, “studi d’oltreoceano”, che confermerebbero “che i figli nati in coppie sterili, omo ed etero-genitoriali, grazie alle tecniche di fecondazione assistita, risultano essere più creativi, più intellettualmente vivaci e più sereni di tanti figli procreati «naturalmente», proprio in quanto pensati e voluti più degli altri”. Si ammette, peraltro, che vi siano casi che evidenziano criticità, ma si specifica che queste dovrebbero ascriversi, in definitiva, “ai pregiudizi”, alle “posizioni arcaiche di parti politiche autoritarie e illiberali” ([55]).
Non si saprebbe dire quanto queste narrazioni si concilino con le esperienze concrete affrontate dai giudici nei tribunali, un esempio delle quali è offerto dalla vicenda che ha occasionato la sentenza n. 32/2021, cit. in § 2.2, dove in pratica l’ordinamento è chiamato a preservare, per quanto possibile, il minore dai conflitti presenti nella coppia c.d. omoaffettiva in misura non diversa da quella eterosessuale.
Per altro verso, qui non interessa riproporre le severe critiche formulate in dottrina a proposito dei “progetti di genitorialità intenzionale” ([56]), dei quali si è denunciata la sostanziale funzionalità a stereotipi “postpatriarcali” della donna basati sulla possibile separazione tra gravidanza e maternità ([57]), senza considerare che entrambe costituiscono dimensioni esistenziali costitutive di ciascuna donna. Sono contrapposizioni che contrassegnano tutte le questioni con riflessi sulla bioetica e che contribuiscono in misura limitata a chiarire ciò che qui interessa, vale a dire il perimetro nel quale può muoversi il futuro legislatore.
A tal fine è maggiormente utile rammentare che l’aspirazione alla genitorialità di taluni non è neutra verso i terzi: per salvaguardare l’”autodeterminazione procreativa” di taluno, infatti, alla madre in affitto è negato il figlio che ha portato in sé, malgrado l’intenso legame genetico e neurobiologico che si instaura con il futuro nato al quale già si è fatto cenno.
Ancora una volta si ripropone la gravità di quest’ultimo aspetto: il legame che si crea tra nascituro e gestante è alla base dell’art. 2693 c.c.; ad esso la giurisprudenza ha fatto riferimento allorché ha sottolineato che “la letteratura scientifica è unanime nell’indicare come sia proprio nell’utero che si crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre” ([58]).
In questo contesto deve essere attentamente considerata l’idea di chi ammette che nel rapporto simbiotico tra uomo e madre si intravede “un aspetto coessenziale all’idea di uomo” quale “essere umano nato da donna”. Ciò malgrado, si aggiunge, la maternità surrogata dovrebbe ammettersi come maternità “altra” rispetto a quella, per così dire, “tradizionale” ([59]).
Di fronte a questa posizione si deve confessare un senso di profondo smarrimento; tale smarrimento, in particolare, si innesta sulle conseguenze dirette che inevitabilmente avrebbe l’abbandono del “modello tradizionale” nella fondazione biologica dell’uomo: quando si teorizza una maternità “altra” - oggi in rapporto alla maternità surrogata, in futuro analoga ipotesi potrebbe costruirsi in funzione di una gestazione completamente automatizzata, sulla quale sembrerebbe che taluno stia lavorando - occorre tener conto che ciò non può che avviare verso un essere umano “altro” rispetto a quello cui siamo avvezzi da molte decine di migliaia di anni. Le considerazioni di Zatti, in altre parole, sono estremamente utili perché contribuiscono ad acquisire consapevolezza della posta in gioco: per assecondare il desiderio di genitorialità di taluno si propone di modificare l’idea che l’uomo ha di sé stesso in stretta conseguenzialità della fondazione costitutiva delle sue origini biologiche.
Peraltro, il modello “tradizionale” di essere umano, con le sue caratteristiche descritte dall’epigenetica (v. ancora nota 19), e sul quale ci si interroga dalle origini dell’umanità, presenta riscontri di non poco momento sia sul piano giuridico, sia sul versante sociologico. Quanto al primo, occorre prendere atto che il profondo legame biologico che si stabilisce nel grembo materno costituisce la radice ultima del diritto del figlio ad uno status corrispondente alla verità biologica in quanto momento del diritto all’identità personale e del diritto all’identità genetica, sui cui si è già espressa la Corte Costituzionale ancorandolo agli artt. 2 e 3 Cost. ([60]), che si declina anche nell’imprescrittibilità delle azioni di stato per il figlio ([61]).
Anche in rapporto a quanto si dirà infra in par. 6, non è inutile aggiungere che tale diritto all’identità genetica, lungi dall’essere frutto di elaborazioni suggestive, ha un riscontro sostanziale confermato dalle indagini condotte dai sociologi: questi ultimi hanno dovuto prendere atto del moltiplicarsi delle richieste provenienti da nati a seguito della donazione di gameti, che sempre con maggiore frequenza manifestano la volontà di conoscere l’identità dei donatori, ossia dei loro genitori biologici ([62]). Ciò, in altre parole, significa che con il diritto all’identità genetica l’ordinamento riconosce la rilevanza giuridica primaria di un insopprimibile vocazione degli esseri umani, che riceve conferme anche sul piano socio-antropologico: la discendenza biologica.
Ne risulta un quadro assai frastagliato a causa del sovrapporsi di “genitorialità intenzionali” (più o meno articolate a seconda dei casi) con genitorialità biologiche anch’esse potenzialmente articolate. Tornano così inevitabilmente a far sentire i loro gemiti “gli spaccati sentimentali profondi” prima ricordati, con la conseguenza che – a tutto voler concedere - “la necessità di elaborare e trovare forme comunicative condivise e sostenibili di questa origine di nascita si impone con forza e forse, proprio per questo, è più riflettuta anche a livello collettivo” ([63]).
4.2 – “Autodeterminazione procreativa”, diritto alla genitorialità e Corte costituzionale: per un diritto costituzionale non à la carte. Sarebbe inutile eludere la realtà: gli “spaccati sentimentali profondi”, cui sopra si è accennato, dipendono dal fatto che l’autodeterminazione procreativa delle coppie omoaffettive ha la peculiarità di essere purtroppo così poco autonoma da non poter fare a meno di servirsi di altre persone.
Un consistente orientamento dottrinale e giurisprudenziale rappresenta tale particolare “autodeterminazione” in termini di “scelta incoercibile” costituzionalmente fondata sull’art. 2 Cost. Questa prospettazione viene avvalorata con il richiamo a Corte costit. 10 giugno 2014, n. 162 ([64]).
A mio parere è necessaria un’ulteriore verifica sul se e come questa sentenza possa essere utile al cennato orientamento. Tale verifica non può non prendere le mosse da un dato oggettivo: la sentenza in realtà non contiene alcun riferimento in qualche modo estensibile alle coppie omosessuali. Anzi, v’è di più: non solo la sentenza n. 162/2014, ma la costante giurisprudenza della Corte costituzionale è nel senso di non riconoscere alle coppie omosessuali alcun diritto alla genitorialità costituzionalmente fondato.
Per quanto riguarda la sentenza n. 162/2014, essa si occupa esclusivamente delle “coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” di cui all’art. 5, l. n. 40/2004 (par. 3.4; la Corte ribadisce questo punto in par. 11.1) ed effettivamente riconosce a tali coppie una scelta incoercibile alla genitorialità. La Corte non consente dubbi in proposito: “la scelta di tale coppia” – ossia, a scanso di equivoci non è inutile ribadirlo ancora una volta, la coppia “di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” – “… di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà che … è riconducibile agli art. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare”. Quando questa libertà delle coppie eterosessuali sia frustrata da patologie in grado di determinare una infertilità o sterilità irreversibili – prosegue la sentenza n. 162/2014 – il diritto alla salute ex art. 32 Cost. ammette che tali coppie facciano ricorso ad una procreazione non naturale una volta preso atto del fallimento delle pratiche terapeutiche. In proposito la Corte costituzionale è estremamente chiara: “la disabilità” alla procreazione, che in forza dell’art. 32 Cost. non può ostacolare la coppia nella realizzazione del progetto procreativo, è prodotta da “patologie” che debbono necessariamente avere caratteristiche ben precise: tali patologie, infatti, I) debbono essere causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute; II) devono suscettibili di essere trattate con “pratiche terapeutiche” (v. par. 7, in fine).
Si introduce così un aspetto di primaria importanza per la comprensione degli esatti termini nei quali si pone il problema della procreazione non naturale all’interno del quadro costituzionale delineato dalla Corte. In particolare, la sentenza n. 162/2014 avverte il rischio che la procreazione non naturale possa essere funzionale ad appagare venature narcisistiche degli aspiranti genitori. Di conseguenza, la Corte costituzionale mette in guardia dal rischio di una soggettivizzazione della nozione di salute finalizzata ad “assecondare il desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini consumistici” (par. 7 della sentenza, in fondo, mio il corsivo). Orbene, secondo la Corte Costituzionale il rischio da ultimo palesato, vale a dire il rischio di una soggettivizzazione della nozione di salute, “il desiderio di autocompiacimento” che sostanzia detta “soggettivizzazione”, sono esclusi, non già dall’orientamento sessuale dei componenti della coppia, ma esclusivamente da “patologie” che siano causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute e che siano suscettibili di essere trattate con “pratiche terapeutiche”. Ne segue che, quando non sussistono dette patologie, quando il ricorso a “pratiche terapeutiche” sia addirittura un fuor d’opera, si apre il campo al “desiderio di autocompiacimento”, ovvero, come pure è stato scritto, alla “generazione di un figlio come mero strumento per l’affermazione di sé, da ottenere con qualsiasi mezzo”.
A questo punto, fini di chiarezza espositiva impongono di trarre le seguenti conclusioni a margine di Corte cost. n. 162/2014:
I) il diritto alla genitorialità, quale momento costitutivo della libertà di autodeterminazione e realizzazione della persona all’interno di “formazioni sociali” ex art. 2 Cost., è riferito dalla sentenza esclusivamente ai componenti di quella specifica “formazione sociale” descritta dall’art. 5, l. n. 40/2004 più volte richiamato in sentenza ed in queste pagine, vale a dire – è utile ripeterlo visti gli equivoci insorti in dottrina e giurisprudenza – la formazione sociale costituita da una coppia “di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”;
II) l’infertilità idonea a giustificare ex art. 32 Cost. vicende di procreazione non naturale è esclusivamente l’infertilità patologica, ossia l’infertilità assoluta eziologicamente connessa a patologie suscettibili di trattamento medico: in altre parole, nell’ambito di applicazione dell’art. 32 Cost. nessuna cittadinanza ha ai fini predetti la c.d. “infertilità sociale” o “relazionale”, caratterizzante le coppie monoaffettive;
III) al di fuori delle patologie del tipo ricordato nella sentenza n. 162, il ricorso alla procreazione non naturale deve essere valutato anche in rapporto al rischio di “assecondare il desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini consumistici”.
Su queste linee portanti la Corte costituzionale si è attestata nelle successive sentenze 23 ottobre 2019, n. 221 ([65]) e 4 novembre 2020, n. 230 ([66]).
La prima di tali sentenze prende le mosse dalla “possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione”, ma nega che tale scissione renda esperibile per singoli individui e coppie omoaffettive un diritto costituzionalmente garantito a procreare con metodi diversi da quello naturale. Su questa premessa, la sentenza n. 221/2019 conferma il precedente punto I) fissato dalla sentenza n. 162/2014: come si ricorderà, la precedente sentenza aveva riferito il diritto alla genitorialità di cui all’art. 2 Cost. alle coppie “di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”; non diversamente, la sentenza del 2019 precisa che è costituzionalmente legittima “l'idea … che una famiglia ad instar naturae — due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile — rappresenti, in linea di principio, il «luogo» più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato” (par. 13.1 e v. anche par. 11).
In stretta coerenza con questo aspetto, la sentenza del 2019 prosegue confermando anche il punto II) ricavato dal precedente del 2014, il quale aveva affermato che solo l’infertilità patologica, propria delle coppie eterosessuali, può contare sull’ombrello costituzionale dell’art. 32 Cost. ([67]). La Corte nel 2019 completa il ragionamento aggiungendo che ad analoga copertura non può aspirare la c.d. infertilità sociale propria delle coppie omosessuali, atteso che quest’ultima non può qualificarsi come una “patologia”, essendo al contrario assolutamente fisiologica ([68]).
Anche la sentenza del 2019, infine, trae le inevitabili conseguenze a proposito delle aspirazioni a divenire genitori per il tramite della tecnologia: in proposito, la sentenza del 2014 aveva accennato al fatto che, al di fuori delle situazioni patologiche trattabili attraverso le “pratiche mediche”, si sconfina nel “desiderio di autocompiacimento dei componenti di una coppia, piegando la tecnica a fini consumistici”. Sulla stessa linea si colloca la sentenza del 2019, quando, una volta esclusa l’infertilità sociale dall’ambito di applicazione dell’art. 32 Cost., derubrica l’aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali a mera “aspirazione soggettiva”, la cui realizzazione è lasciata alla discrezionalità del legislatore ordinario (par. 16).
Tutti questi aspetti sono fatti propri dalla sentenza n. 230/2020, la quale di fatto si limita a richiamare i passaggi maggiormente significativi del suo precedente del 2019. Così, è espressamente ribadito che alla stregua degli artt. 2, 3 e 30 Cost. “la scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore … di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare», sottende l'idea, «non ... arbitraria o irrazionale», che «una famiglia ad instar naturae [ossia composta da] due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile rappresenti, in linea di principio, il ‘luogo’ più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato»”.
Su questa linea la sentenza del 2020 della Corte costituzionale precisa che “tale scelta [del legislatore ordinario] non vìola gli art. 2 e 30 Cost., … perché l'aspirazione della madre intenzionale [componente di una coppia omosessuale femminile] ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.”, con la conseguenza che “l'esclusione dalla p.m.a. delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale”.
Ognuno vede che ci troviamo di fronte alla stessa conclusione già tratta dalla sentenza 15 novembre 2019, n. 237 ([69]), par. 3.1.1: migliore prova della costanza dell’orientamento della Corte costituzionale non potrebbe esservi.
L’esposizione della giurisprudenza della Corte costituzionale deve poi essere completata con un’ulteriore osservazione. Tale giurisprudenza, a ben vedere, non solo non contrasta con la giurisprudenza della CEDU ([70]), ma è assolutamente coerente con la Convenzione di Oviedo, nel cui Preambolo si avverte espressamente che “i progressi della biologia e della medicina devono essere posti al servizio e a beneficio delle generazioni future”. Più chiaramente, la Convezione di Oviedo, che, come noto, mira alla “protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina”, reca l’evidente indicazione secondo la quale biologia, medicina, non diversamente dai loro sofisticati sviluppi sul versante tecnologico, devono essere funzionali alle “generazioni future”, con conseguente attenzione a interessi di carattere generale riferibili alla società prossima ventura, alla sua struttura, ai suoi valori, di fronte ai quali evidentemente cedono – secondo la Convenzione internazionale in esame - le aspirazioni dei singoli individui della generazione presente, soprattutto quando tali aspirazioni rischino di trascendere in quelli che la Corte costituzionale ha designato “desideri di autocompiacimento”.
Del pari, la Convenzione di Oviedo, ed in particolare il suo art. 19, conferma le indicazioni della Corte costituzionale e del legislatore ordinario in tema di genitorialità delle coppie omoaffettive. È pacifico che queste ultime presuppongono l’intervento quanto meno di un “donatore” che consenta la realizzazione della loro aspirazione di genitorialità. Senonché l’art. 19 della Convenzione cit. depone nel senso che gameti maschili e femminili possono essere “donati” solo a fini di terapia del ricevente (così, letteralmente, l’art. 19 cit.) e mai, dunque, per porre rimedio ad una sterilità “sociale” o per soddisfare una aspirazione alla genitorialità dello stesso ricevente o di terzi, atteso che in ogni caso non si tratta di patologie suscettibili di trattamento medico e che dunque non possono rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 32 Cost.
5. – A proposito di “apprezzamento sociale della fenomenologia considerata” e dello spazio da riconoscersi alla “giurisprudenza non costituzionale” alla stregua degli artt. 2 e 101 Cost.
Non trova, dunque, concreto riscontro l’idea, secondo la quale le sentenze più recenti del giudice delle leggi si discosterebbero dalla sentenza n. 162/2014, talora descritta come esempio di progresso e civiltà, cui sarebbero seguite decisioni dalla “impostazione eccessivamente dottrinale, per non dire ideologica” ([71]). Al contrario, l’analisi condotta nelle pagine precedenti dimostra un’evidente continuità nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, per di più, non manca occasione di sottolineare come non esistano diritti costituzionalmente garantiti in modo assoluto, ossia insuscettibili di coordinamento con esigenze ed interessi in ipotesi confliggenti e di pari rango costituzionale.
Non si può non convenire su questo punto. L’art. 2 Cost. lascia intravedere una trama di “diritti inviolabili”. Questi “diritti inviolabili”, nello scenario delineato dalla disposizione costituzionale, non sono monadi isolate, ma intersecano e sono suscettibili di confliggere con i “diritti inviolabili” di altri. Ed ancora quei “diritti inviolabili” affiancano e spesso collidono con “doveri inderogabili”, a dimostrazione che “inviolabilità” non è sinonimo di “assolutezza”.
Nel quadro così delineato non v’è, ovviamente, né antinomia, né confusione: la chiave della composizione è indicata dalla stessa Costituzione.
I “diritti inviolabili” sono funzionali all’espressione della personalità di ciascuno onde garantirne il “pieno sviluppo”. Essi si sostanziano, in definitiva, in una garanzia della realizzazione del “sé”, vale a dire in una garanzia di quel “poter essere sé stessi”, che comporta, peraltro, la responsabilizzazione di ciascuno in ordine agli esiti della propria vita, con ricadute prescrittive che qui sarebbe un fuor d’opera richiamare ([72]). Preme sottolineare un altro aspetto: lo stesso art. 2 Cost. avverte che la società in esso prefigurata non è la società delle scelte individuali “incoercibili” o dei desideri di autocompiacimento esercitati nella loro assolutezza, a prescindere dalle loro “esternalità negative”. La disposizione costituzionale, infatti, nell’accostare i diritti all’“adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, pone immediatamente il “sé” di ciascuno in relazione con il “noi” della collettività, con una inevitabile coloritura organicistica di quest’ultima, di cui sarebbe uggioso riproporre in questa sede la “risalentissima” e plurima genesi culturale.
Ancora una volta affiora il tema del coordinamento tra diritti. Come pure, affiora ineludibile il cooridnamento tra “diritti inviolabili” e “doveri inderogabili”. Il senso di tale coordinamento emerge dalla parola che per prima connota la “solidarietà” richiesta dall’art. 2: invero, la “solidarietà” in cui si coagula la sintesi tra “diritti inviolabili” e “doveri inderogabili”, è innanzi tutto “politica”: ciò significa che il componimento di diritti e doveri deve aver luogo sulla base di valutazioni culturali aventi ad oggetto la struttura di fondo della società, le quali – non è inutile ribadirlo – sono valutazioni che pertengono al Parlamento quale collettore ed eco dei vari segmenti della società stessa.
Si conferma così che il Parlamento, e dunque la Politica, sono chiamati a comporre in un delicato equilibrio “gli spaccati sentimentali profondi” prima accennati ed i diritti ed i doveri invocati a loro conforto. In particolare, come si ricorderà, è necessario stabilire le modalità della tutela del nato per iniziativa di coppie omogenitoriali, la cui situazione di vita, il cui interesse non potrà che essere accertato scrupolosamente dal giudice nel singolo caso concreto ([73]), onde evitare un triplice rischio: per un verso, infatti, vi è il rischio che il minore, in caso di burocratica formalizzazione di un rapporto posto in essere in violazione della legge, si trovi ad essere funzionale a desideri di autocompiacimento degli adulti ([74]); ovvero, all’opposto, il minore corre il rischio – correttamente denunciato dalla Corte Costituzionale - di essere sacrificato alla pur legittima finalità di disincentivare il ricorso a pratiche di PMA eterologa o a maternità surrogata vietate dalla legge. Ci si dovrà, a questo proposito, porre l’interrogativo se tali violazioni di legge debbano continuare a rimanere del tutto impunite. Infine, vi è il rischio – che attualmente, per la verità, è una certezza – di assoggettare ad un trattamento deteriore quelle coppie eterosessuali che decidono di rispettare la legge e si sottopongono ai molteplici accertamenti circa la loro idoneità genitoriale previsti dalla vigente disciplina dell’adozione.
A questo punto si comprende la correttezza della scelta effettuata dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 32 e 33 del 2021 di non procedere a dichiarazioni di incostituzionalità e di devolvere la questione al legislatore.
Una parte degli annotatori di tali sentenze ha dubitato della bontà di questa opzione. Ci si è, ad esempio, chiesti se la discrezionalità legislativa debba ritenersi ormai significativamente compressa da due fattori: da un lato, il dubbio di una possibile incostituzionalità di una discriminazione della genitorialità in ragione dell’orientamento sessuale; dall’altro, la necessaria eguaglianza della situazione dei “figli”, a prescindere dalla “comunità di affetto e di cure” in cui sono inseriti. Su queste premesse, si è concluso che nella specie potrebbe esservi spazio per un intervento della “giurisdizione non costituzionale” ([75]).
Non possono sfuggire luci ed ombre di questa posizione. È indiscussa, ad esempio, la necessità che il minore sia tutelato a prescindere dall’illiceità della condotta degli adulti. Come pure, non v’è dubbio sulla necessità di un tempestivo intervento del legislatore. Di contro, maggiori margini di discussione si intravedono a proposito di altri aspetti sollevati dall’intervento in esame, quali l’accenno ad una limitata discrezionalità del legislatore in materia, nonché la legittimazione della “giurisdizione non costituzionale” ad intervenire in materia.
L’esame di questa posizione non può prescindere da quanto più volte sottolineato dalla Corte costituzionale, secondo la quale la soluzione delle complesse vicende qui esaminate è rimessa all’ “apprezzamento sociale della fenomenologia considerata”, ossia all’apprezzamento di quegli “spaccati sentimentali profondi” cui prima si è accennato. Tale accertamento si dovrebbe guardare sia dalle suggestioni dei mass media, sia dalle narrazioni di una parte della letteratura. Esso, piuttosto, dovrebbe tenere la barra sulla Costituzione e sulle sue indicazioni, che – come avvertito dalla Corte costituzionale - sono nel senso di quella ragionevole e ragionata composizione tra diritti e doveri imposta dall’art. 2 Cost. La chiave è nell’osservazione – perfettamente in sintonia con l’art. 2 Cost. – secondo la quale “i progetti di vita individuali non si formano al di fuori dei contesti intersoggettivi condivisi”. Si affaccia così ancora una volta la dimensione valoriale, nella quale resta indistinto il confine, d’altra parte sempre labile, tra etica e politica. Di fronte a questo scenario assume particolare significato, per quanto qui interessa, l’art. 101 Cost., allorché assoggetta il giudice “soltanto” alla legge e con ciò preclude alla “giurisdizione non costituzionale” di sovrapporre le proprie opzioni valoriali a quelle fatte proprie dal legislatore ordinario a pena di far saltare il meccanismo democratico. In questo senso l’art. 12 prel., pur con tutte le perplessità che suscita ([76]), assume una valenza oggettivamente costituzionale ed essenzialmente costitutiva dell’organizzazione sociale.
6 – A proposito di “famiglia ad instar naturae”, di art. 29 Cost. e di “fallacia naturalistica”.
6.1 – La “società naturale” ed il diritto fondamentale all’identità genetica. Sui temi della filiazione e della famiglia si sono talora lamentate forzature dei dati normativi ([77]), come pure l’utilizzazione suggestiva di “parole magiche” (quali, ad esempio, “autodeterminazione” e “salute”) ([78]), con il fine – si afferma – di imporre all’ordinamento curvature particolari su temi (non solo) eticamente sensibili eludendo in qualche modo il vaglio parlamentare. Fondati o meno che siano questi rilievi per quanto riguarda il passato, non può non prendersi atto che nella presente occasione la Corte costituzionale ha evitato “disarmonie” ed ha rimesso al Parlamento – e dunque ad una Politica auspicabilmente con la “p” maiuscola – la decisione sul se e fino a che punto la tutela dell’interesse del minore possa costituire una sorta di “grimaldello” per sancire il tramonto nell’ordinamento italiano del modello di famiglia, quale “luogo più adatto dove fare nascere un bambino”, sancito, ad esempio, dal più volte richiamato art. 5, l. n. 40/2004: a questo fine è stata preferita quella particolare “formazione sociale” costituita da coppie di maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o stabilmente conviventi, che pure un radicamento (e forse più di uno, come si dirà qui di seguito) nell’art. 29 Cost sembra averlo.
Non è compito di queste note offrire suggerimenti al legislatore. Qui si è inteso solo procedere ad una ricognizione del “campo di gioco” come definito dalla Corte costituzionale e si è preso atto che la giurisprudenza recente della Corte ha chiarito che I) è costituzionalmente legittima e non contrasta con i trattati internazionali “l'idea … che una famiglia ad instar naturae — due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile — rappresenti, in linea di principio, il «luogo» più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato”; con la conseguenza che II) “l'esclusione dalla p.m.a. delle coppie formate da due donne [e quindi l’esclusione delle coppie omosessuali dal ricorso alla tecnica a fini procreativi] non è … fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale”.
Ognuno intende la quantità e la complessità degli spunti problematici evocati da queste affermazioni ed in particolare dal riferimento cruciale ad una “famiglia ad instar naturae”.
Anche in questo caso lo spazio si conferma tiranno. Queste note mirano a dare sommario conto dei temi e delle difficoltà di cui dovrà tener conto il legislatore se e quando porrà mano al compito affidatogli dal giudice delle leggi. Ne segue che alle questioni connesse al modello di famiglia fatto proprio dall’art. 29 Cost. – e, ad un dipresso, dall’art. 5, l. n. 40/2004, nonché da altre disposizioni della legge ordinaria che qui è inutile richiamare – potrà essere fatto cenno nella misura in cui esse vengono in primo piano a seguito delle obiezioni che sono state recentemente mosse al modello predetto.
Al riguardo, nella dottrina più recente si incontrano affermazioni, secondo le quali il c.d. “modello naturale” di famiglia sarebbe “rozzo” ([79]), esprimerebbe una “forte semplificazione riduttiva” ([80]), sarebbe inficiato da “fallacia naturalistica” ([81]).
Questi rilievi critici non possono certamente essere ignorati, anche se non si saprebbe misurare la loro effettiva idoneità a minare il c.d. modello naturalistico fatto proprio dal legislatore sulla base dell’art. 29 Cost., salvo a provare a riflettere ancora sul senso da assegnare a tale modello.
Invero, quando il sociologo afferma che l’art. 29 Cost. “esprime una forte semplificazione riduttiva di ciò che è famiglia, non solo rispetto ad altre società ed epoche …, ma anche rispetto alla nostra stessa esperienza” ([82]), non pare formulare una critica congrua all’art. 29 Cost. nella sua essenza di norma giuridica. La stessa dottrina, infatti, ribadisce che “famiglia” è nozione “a geometria variabile”: possono darsi una “famiglia anagrafica”, una “famiglia legale”, una “famiglia sociale”, una “famiglia degli affetti”; si afferma, inoltre, che il perimetro di ciascuna di queste nozioni di “famiglia” (eccezion fatta, bisogna precisare, per quella “legale”) è spesso rimesso ai sentimenti individuali ([83]). Orbene, è del tutto evidente che l’art. 29 Cost. si muove su un piano completamente diverso rispetto a queste considerazioni: esso, in quanto norma giuridica, non ha, né può avere la pretesa di offrire un quadro riassuntivo di ciò che può essere percepito come “famiglia” sul piano individuale o sociologico nell’attuale contesto sociale italiano o in altri: è lecito chiedersi, ad esempio, quale spazio possano avere nel dibattito sull’odierna struttura socio-giuridica italiana le modalità sulle quali sono ordinati i rapporti parentali e di filiazione nella società Samo del Burkina Faso ([84]), che pure vengono portati ad esempio.
La stessa dottrina, di contro, conviene sul fatto che filiazione, parentela, famiglia sono dati non solo naturali, biologici, ma anche culturali e socio-giuridici ([85]). Su tali dati è sovrana la norma che – sulla base di premesse culturali - decide di volta in volta che cosa della “natura” è considerato socialmente legittimo e giuridicamente rilevante. Per l’appunto questo compito assolve l’art. 29 Cost., il quale, in quanto norma giuridica, iscrive intorno all’aggettivo “naturale” (e al matrimonio) il perimetro della “famiglia” giuridicamente rilevante in quanto tale.
In quanto norma giuridica l’art. 29 Cost. è soggetto ad interpretazione, la quale, a sua volta, non può sottrarsi alle contingenze storiche. Così, ormai consegnata alla storia può probabilmente ritenersi l’interpretazione che vedeva nella formula dell’art. 29 Cost. un richiamo al diritto naturale ([86]), con l’evidente intento di sottrarre la famiglia alla disciplina statale, secondo il programma esplicitato nella (per ogni dove) ripetuta affermazione di A.C. Jemolo, circa la famiglia come isola che avrebbe potuto essere solo lambita dal diritto statuale ([87]). Al giorno d’oggi, piuttosto, sembra piuttosto prevalere la proposta di leggere la formula dell’art. 29 Cost., a proposito della famiglia quale “società naturale”, alla stregua di un “riferimento alle forme concrete che la realtà familiare assume in un determinato contesto sociale” ([88]). Tali “forme concrete” della “realtà familiare” sarebbero supportate dalle normative sovranazionali e soprattutto dalla giurisprudenza formatasi su di esse, le quali, a loro volta, riflettono le differenti concezioni di “famiglia” presenti nei vari contesti europei. La conclusione che se ne trae è che “nell’ordinamento attuale il termine ‘famiglia’ non designa un modello unitario, ma è riferito ad una pluralità di relazioni, la cui natura familiare, in base alla comune esperienza sociale, è data dalla sussistenza di legami di vario genere” ([89]).
Qui non è possibile verificare ciò che resta della nozione di “famiglia” quando essa sfumi nella vaghezza chiaroscurale di “una pluralità di relazioni”, il cui comun denominatore sia costituito da “legami di vario genere”. Il nodo, sul quale si intende soffermare l’attenzione, si situa “a monte”. Occorre, infatti, chiedersi fino a che punto la auspicata circolazione dei modelli di regolazione dei rapporti familiari e di filiazione non equivalga ad una forzatura, tenuto conto della disomogeneità di culture e di sensibilità tuttora persistente tra i vari paesi ([90]). Tale disomogeneità ha radici così importanti che la stessa CEDU con le note sentenze ricordate anche dalla Corte costituzionale ha ammesso una diversità di legislazione tra i vari paesi aderenti al Trattato del 1950 in tema di procreazione non naturale.
Altri aspetti, poi, meritano attenzione. L’orientamento in esame fa leva su una lettura assai particolare della parola “naturale” presente nell’art. 29 Cost., dal momento che tale parola viene di fatto sostituita con la parola “sociale” in forza di una operazione ermeneutica definita da chi la pone in essere “interpretazione sistematica”. In realtà, questa operazione deve essere riconosciuta per quello che è. In proposito, occorre riconoscere che risulta non agevole ricondurre al significato proprio della parola “naturale” una apertura all’evoluzione sociale. Al contrario, la parola “naturale” sembra rimandare ad un’idea di stabilità e di immutabilità ([91]), piuttosto che rinviare all’evoluzione storico sociale. Occorre, allora, essere consapevoli che ci troviamo di fronte ad un’operazione assolutamente lecita, ma assai particolare, qualificata dalla dottrina come “interpretazione creativa” o “evolutiva”. Peraltro, da tempo operazioni di questo tipo sono state poste al di fuori delle ipotesi di “interpretazione vera e propria”, in quanto attribuiscono ai termini oggetto di indagine significati diversi da quelli loro propri ([92]): nella fattispecie la parola “naturale” subisce una torsione verso una apertura all’evoluzione storico-sociale, che pare tutt’altro che prossima al suo nucleo semantico. È del tutto evidente che si tratta – al pari di quanto accade in ogni “interpretazione evolutiva” - non già di un’operazione ermeneutica, ma politica, nel senso che l’interprete mira a sovrapporre una norma di sua creazione a quella a suo tempo stabilita dal legislatore (in questo caso) costituzionale.
Se questi sono gli orientamenti che storicamente si sono contesi l’art. 29 Cost., si fa fatica a dirsi in qualche modo appagati dalle alternative da loro proposte. Per entrambi gli orientamenti vale quanto si affermò all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione a proposito del primo, inteso a richiamare il diritto naturale: “ognuno può metterci dentro quello che vuole” ([93]). Le tesi esposte confermano i sapienti artifici al bisogno mobilitati dai più dotti operatori del diritto per sostituire le proprie opzioni a quelle fissate nella disposizione interpretanda. Si tratta di artifici che nulla hanno a che fare con l’interpretazione cui è propriamente chiamato l’interprete, ossia l’attribuzione di significati a parole rimanendo nell’ambito dei confini semantici delle stesse. Quel che è più grave è che tali operazioni culturali non sono neutre, dal momento che, come si è accennato nel par. 5, autorizzano seri interrogativi sull’effettivo ubi consistam del sistema democratico: riaffiora così il grave problema di un diritto costituzionale à la carte (v. par. 4.2).
Quanto al sintagma “società naturale”, dal quale pure non si può prescindere alla stregua della richiamata giurisprudenza della Corte Costituzionale, occorre chiedersi se non possa scrutinarsi una terza via maggiormente vicina alla radice semantica delle parole usate nell’art. 29 Cost., anche al fine di conservare al medesimo il ruolo assegnatogli nell’architettura costituzionale. In questa prospettiva, ci si deve chiedere se probabilmente dotato di maggiore congruenza per l’aggettivo “naturale” possa essere il riferimento ad un dato offerto dalla nozione antropologica di “famiglia” quale “unità domestica di dimensioni più o meno piccole, organizzata sulla base di stretti rapporti di parentela [moglie, marito e figli]”, e costituito da quei “legami di sangue” ([94]). Proprio l’accenno a questi ultimi rende palese che tale nozione unisce al dato antropologico quello biologico, la cui saldatura dà luogo ad un valore riconosciuto sul piano giuridico dall’elaborazione di quel diritto all’identità genetica cui sopra si è accennato.
Occorre ordinare questi spunti per vedere se è possibile trarne un ordito dotato di persuasività. A tal fine è necessario prendere le mosse da un rilievo ormai comunemente acquisito, secondo il quale “ogni società umana modifica le condizioni della propria perpetuazione fisica con un complesso insieme di regole quali il divieto di incesto, l'endogamia, l'esogamia, il matrimonio preferenziale con un certo tipo di parenti, la poligamia o la monogamia, o con l'applicazione più o meno sistematica di norme sociali, morali, economiche o estetiche” ([95]). Orbene, sebbene antropologi ed etnografi abbiano opinioni diversificate a proposito dell’effettivo ruolo giocato dalla regola del divieto di incesto (che per l’autorevole dottrina riportata assolve un ruolo centrale), vi è tra loro comune consenso che “la famiglia”, nel senso antropologico sopra indicato di “unità domestica di dimensioni più o meno piccole, organizzata sulla base di stretti rapporti di parentela [moglie, marito e figli]”, “sembra costituire un requisito strutturale di ogni società umana” ([96]).
È un aspetto che, benché apoditticamente svalutato da taluno ([97]), non sembra di secondo piano: antropologi ed etnologi sono unanimi nel ritenere che ogni società umana – con le sole eccezioni, sembrerebbe, dei Nayar della costa del Malabar dell’India meridionale e degli Ashanti del Ghana ([98]) – ha individuato le modalità organizzative della propria perpetuazione fisica in quella particolare “formazione sociale” costituita da una “unità domestica di dimensioni più o meno piccole, organizzata sulla base di stretti rapporti di parentela [moglie, marito e figli]”. In particolare, salvo le eccezioni predette, a tale specifica “formazione sociale” in ogni società umana sono assegnate di regola le funzioni sessuale, economica, riproduttiva ed educativa della prole ([99]).
A questo punto occorre chiedersi se il requisito della “naturalità” non possa essere risolto su un piano assolutamente fenomenologico in base alle caratteristiche costantemente esibite dalle società umane (salvi sempre i Navar e gli Ashanti), nel senso che può ben a ragione ritenersi “naturale” la costante fenomenologica che la scienza ci dice essere propria delle organizzazioni umane. Più precisamente, è possibile intravedere nell’art. 29 Cost., ed in sostanziale continuità con questo nel successivo art. 30, la risposta normativa ad un’esigenza antropologica ben precisa, ossia l’“individuazione” delle condizioni per la “perpetuazione fisica” di quella specifica “società umana” cui si rivolge il costituente italiano.
Se si tiene di poter percorrere questa via, ci si rende conto che la “famiglia”, vale a dire l’unione di cui parlano antropologi ed etnologi, si conferma avere una particolare connotazione all’interno delle “formazioni sociali” di cui parla l’art. 2 Cost. Essa, infatti, si rivela funzionale a quel particolare [...] coessenziale a qualsiasi organismo vivente, che è la “perpetuazione fisica”. In altre parole, gli artt. 29 Cost., 5, l. n. 40/2004 ecc. danno continuità - attraverso passaggi che qui non interessa riproporre ([100]) – al dato antropologico costituito dalla costante inclinazione delle società umane ad ordinare la loro perpetuazione fisica su una relazione di coppia, che – destinata ad integrarsi nel contesto sociale secondo linee strutturali storicamente e culturalmente determinate – resta caratterizzata dalla complementarietà biologica, con la precisazione che quest’ultima assume un’ulteriore valore intrinseco nei figli che potranno nascere.
Si conferma, così, il nesso tra antropologia e biologia, cui prima si è accennato: il senso antropologico del requisito della naturalità della “famiglia” – vale a dire, non è inutile ripeterlo, di quella definita antropologicamente come “unità domestica di dimensioni più o meno piccole, organizzate sulla base di stretti rapporti di parentela [moglie, marito e figli]” - non è privo di una sua caratura biologica riassunta in quei “legami di sangue” icasticamente evocati a suo tempo da Carlo Esposito (v. par. 1), i quali innervano l’intrinseco connotato valoriale e giuridico del diritto fondamentale all’identità genetica.
Il punto può essere chiarito meglio: quando si afferma che ogni essere umano ha diritto di conoscere le proprie origini biologiche in quanto queste costituiscono componenti essenziali del suo “essere sé stesso” nella inscindibilità della dimensione corporea da quella intellettiva, a ben vedere si arricchisce la “naturalità” della famiglia di un’ulteriore componente epistemologica. Invero, antropologia, biologia, “legami di sangue”, in cui si è detto riassumersi la “naturalità” della famiglia, contribuiscono a far intravedere un ulteriore valore sotteso all’art. 29 Cost.: quest’ultimo, colla sua visione della “famiglia” quale “società naturale”, mira ad evitare che la scissione tra procreazione e sesso annulli il legame genetico intergenerazionale privando di fatto le persone delle loro radici, che in definitiva accentuerebbe l’isolamento, l’artificialità, in definitiva l’alienazione fisica e morale dell’essere umano.
In queste esigenze fondative della dimensione esistenziale si completa il nucleo costitutivo del diritto all’identità genetica. Alla costruzione di quest’ultimo, allora, si rivela direttamente funzionale l’art. 29 Cost,. dal momento che, nell’individuare nella “famiglia naturale” il luogo socio-giuridico maggiormente idoneo all’accoglimento del nuovo nato, individua al tempo stesso in quel modello lo strumento idoneo alla salvaguardia di quella dimensione esistenziale che si è indicata alla radice del diritto fondamentale in questione.
6.2 – “Società naturale” e “fallacia naturalistica”. Si è anticipato che tra le critiche proposte a margine della “naturalità” della famiglia v’è quella secondo la quale tale interpretazione sarebbe affetta da “fallacia naturalistica”.
Non si saprebbe dire quanto tale obiezione possa dirsi calzante e meditata. La sensazione è che i giuristi dovrebbero essere estremamente circospetti nell’avventurarsi in una “selva”, che, se non è “oscura”, è di certo riconosciuta come estremamente intricata anche dai filosofi. Nell’articolato panorama di studi formatosi sulla nozione di “fallacia naturalistica”, sono ormai consistenti i rilievi circa la pluralità delle sue formulazioni e la sua conseguente ambiguità ([101]), stante non solo e non tanto la non coincidente e discussa configurazione offerta, ad esempio, da Davide Hume, George Moore, Richard Hare ([102]), quanto soprattutto la sua riconducibilità a correnti anche sensibilmente diversi tra loro, quali il divisionismo, il decisionismo, il non cognitivismo, il neopositivismo novecentesco ecc., da declinarsi a loro volta in una pluralità di orientamenti ([103]).
Come si vede, quanti intendano proporre argomenti fondati sulla “fallacia naturalistica” difficilmente possono eludere l’onere di precisare i termini della stessa che prendono a riferimento.
Tanto più stringente appare tale onere quando si tenga conto che sono state sviluppate prospettive tendenti all’oggettivo superamento della “fallacia naturalistica” in nome di una naturalizzazione dell’etica o, più precisamente, di una “fondazione biologica” della stessa. Alla base di questa prospettazione vi è l’evidenza che “è il cervello che sorregge le nostre condotte sociali”. In proposito si è rilevato che la moralità trae origine dalla configurazione del nostro cervello come si è evoluta rispetto a comportamenti di attaccamento e di legame: ciò che generalmente si definisce “etica o morale è uno schema quadridimensionale per il comportamento sociale”, cui presiede un sistema di ormoni e amminoacidi costituito da ossitocina-vasopressina-arginina che faciliterebbe, in buona sostanza, comportamenti cooperativi, rimanendo, peraltro, ciascuno soggetto alle variabili indotte dall’ambiente e dalla cultura ([104]).
È evidente come nella prospettiva appena ricordata la dicotomia tra natura ed etica, che tanta parte ha avuto nel dibattito filosofico e che è alla base della c.d. “fallacia naturalistica” (o almeno di alcune versioni della stessa), è destinata quanto meno ad attenuarsi o addirittura a rivelarsi essa stessa “fallace” ([105]), visto che le condotte volte alla collaborazione e alla condivisione con gli altri sembrano ispirate (anche) da condizioni neurobiologiche, oltre che dall’ambiente e dalla cultura.
Tra i tanti profili in rapporto ai quali la “fallacia naturalistica” è stata recentemente messa in discussione, ve ne è uno in particolare che sembra meritevole di attenzione in quanto va nel senso di escludere che la “fallacia naturalistica” ed i presupposti teorici che vi si celano, si trasformino in un incomprensibile feticcio ontologico, tale sbarrare ogni connessione tra “essere” e “dover essere”, nel dialogo dei quali si iscrive, invece, l’esperienza giuridica. Mi riferisco a chi ha osservato che, se dai fatti non è possibile “derivare” norme quali conseguenze logicamente necessarie dei primi, queste ultime “si possono però argomentare, aggiungendo argomenti o ragioni meno stringenti della deduzione” ([106]), così da assegnare al fatto una regolazione quanto più articolata in proporzione alla sua eventuale complessità.
In questa sede non è necessario dilungarsi ancora per dimostrare che il mero riferimento alla “fallacia naturalistica” non sembra dotato dell’efficacia necessaria per porre “fuori gioco” la decisione assunta a suo tempo dal legislatore di privilegiare la c.d. “procreazione naturale” in coerenza e nell’ambito della “società naturale” delineata dall’art. 29 Cost. nel senso che si è detto. Nella specie, in particolare, ci si dovrebbe porre l’interrogativo se la “fallacia naturalistica” sia appropriatamente invocata con riguardo a norme di diritto positivo. In proposito, mette conto osservare che, se con l’invocazione della “fallacia naturalistica” si vogliono tenere distinti lo “is”, ossia l’esperienza, il fatto, e lo “ought to”, il “dover essere”, essa può avere una qualche utilità nella misura in cui mira a salvaguardare la libertà di colui che è chiamato ad effettuare la valutazione rispetto al fatto.
Sennonché, quando l’“ought to” è già incorporato nella norma giuridica (sia essa l’art. 29 Cost., o l’art. 5, l. n. 40/04, o altra), il richiamo alla “fallacia naturalistica” sembra privo di operatività dal momento che la valutazione è stata già compiuta dal soggetto costituzionalmente legittimato, con la conseguenza che eccepire la “fallacia naturalistica” in questi casi non è altro che un artificio, se non fine a sé stesso, utile al più per criticare la scelta legislativa già compiuta anche a livello costituzionale.
6.3 Art. 29 Cost. e persona umana. Si torna così all’art. 29 Cost. e al complesso sintagma “famiglia come società naturale”. In esso pare effettivamente non semplice intravedere richiami ad un diritto naturale (par. 6.1). Peraltro, al pari di ogni norma giuridica l’art. 29 Cost. postula la valutazione, non già di un fatto in sé, quanto piuttosto dell’interesse umano connesso, intercettato da quel fatto: la norma che ne segue, esprime la valutazione di meritevolezza assegnata dal legislatore storico a quell’interesse ([107]). Il “fatto” dal quale muove l’art. 29 Cost. è la costante antropologica di ogni organizzazione umana, consistente nel radicamento della perpetuazione fisica nell’unione di una coppia eterosessuale allargata ai gradi parentali più stretti. In definitiva, dunque, il valore preso a riferimento dall’art. 29 Cost. è l’essere umano così come definito costitutivamente in chiave antropologica dalle modalità organizzative da lui socialmente adottate per assicurare la sua riproduzione. Anche in questo caso, in altre parole, viene in primo piano quella “persona umana”, la cui centralità qualifica il vigente ordinamento giuridico, e la cui individuazione non può prescindere dalla naturalità del corpo a pena di essere ridotta ad una pura astrazione intellettuale. Più precisamente, la “persona umana”, sulla quale è incentrato tutto l’apparato costituzionale, sembra a fatica separabile dall’essere umano nella sua fisicità fattuale, dalla quale il sesso, con le sue evidenti connotazioni riproduttive, non può essere stralciato se non con una forzatura tanto evidente, quanto priva di ragionevolezza.
[1] ) V. fin d’ora anche per riferimenti Senigaglia, Genitorialità tra biologia e volontà. Tra fatto e diritto, essere e dover essere, in Europa e dir. priv., 3/2017, 953 ss.
[2] ) A ben vedere, la prima analisi sulla famiglia e sulle sue implicazioni anche antropologiche può farsi risalire ad Aristotele, Politica, diciassettesima ediz. A cura di R. Laurenti, Roma-Bari, 2019, 1252-a 24 ss., pag. 4 ss. Per un quadro complessivo v. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, Torino, rist. 1983.
[3] ) V. rispettivamente Mortati, Istituzioni di diritto pubblico8, Padova, 1967, t. II, 1056; e Bessone, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti etico-sociali, sub art. 29, Bologna-Roma, 1976, 1. Mette conto sottolineare che la risalente sintesi di Mortati trova riscontro nelle odierne ricerche sociologiche: v. ad es. Saraceno – Naldini, Sociologia della famiglia3, Bologna, 2013.
[4] ) Caggia, Il linguaggio del “nuovo” diritto di filiazione, in Riv. Crit. Dir. priv., 2015, 235 ss., 237 ss.
[5] ) Marella – Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia. Le relazioni familiari nella globalizzazione dei diritti, Roma-Bari, 2014, 3 e 6; Caggia, op. loc. Cit..
[6] ) La sentenza, al pari della n. 33/2021 di cui si dirà nel successivo § 1.2, può leggersi in Foro it., 2021, I, 1923, con nota di Romboli.
[7] ) E’ stato rilevato che ormai “la figura materna … da monolitica, si scinde in ‘biologica’, la donatrice di ovuli, in ‘gestante’, la donna che porta in grembo un figlio altrui, in ‘legale o intenzionale’, la donna che formalmente (e socialmente) risulta essere madre, poiché, prediligendo una ‘prospettiva funzionale personalistica’ della famiglia, è l’unica persona che si prenderà cura del minore, esercitando la responsabilità genitoriale con il fine di promuoverne la personalità” (Vesto, La maternità tra regole, divieti e plurigenitorialità. Fecondazione assistita, maternità surrogata, parto anonimo, Torino, 2017, 11). Questa tassonomia delle possibili configurazioni della odierna “figura materna” deve essere conciliata con l’art. 269, terzo comma, c.c., che riconduce la maternità al parto, con la conseguenza che alla partoriente dovrebbe essere riconosciuta la qualifica di “madre biologica”, mentre la fornitrice degli ovuli dovrebbe essere la “madre genetica”. Nel conflitto tra le possibili madri prevale quella individuata ex art. 269, comma 3, c.c.: “nel caso in cui due coppie intendono assumersi la responsabilità genitoriale sui nascituri sulla base di due diversi titoli genitoriali, quello genetico e quello biologico, di chi ha portato avanti la gestazione, è a quest’ultima coppia che deve essere data prevalenza. Pertanto, nel caso di errato impianto di embrioni (con patrimonio genetico di altra coppia nell’utero di altra donna), è madre la persona che ha portato a termine la gravidanza. In altri termini, è nell’utero materno che la vita si forma e si sviluppa e, conseguentemente, la maternità biologica prevale su quella genetica. La letteratura scientifica, d’altro canto, è unanime nell’indicare come sia proprio nell’utero che si crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre. D’altro canto, è solo la madre uterina che può provvedere all’allattamento al seno del bambino” (Trib. Roma 8 agosto 2014, in www.ilcaso.it).
Di contro, nella fattispecie recata all’attenzione di Corte Costit. N. 33/2021, di cui è protagonista una coppia omogenitoriale maschile, il minore può formalmente contare su due papà e su nessuna mamma, atteso che la madre biologica e la madre genetica sono rimaste ignote: v. lo “svolgimento del processo” di Cass. 29 aprile 2020, n. 8325, in Corriere giur., 2020, 902, con nota di Salanitro,che è l’ordinanza di rimessione della vicenda di cui infra nel testo alla Corte costituzionale.
[8] ) Si tratta dell’adozione che può aver luogo quando non sussiste la dichiarazione di “stato di adottabilità” prevista dagli artt. 7 ss. l. n. 184/1983. I problemi di carattere esegetico e sistematico cui essa da luogo quando applicata al caso dell’adozione del figlio di un convivente da parte dell’altro (sui quali v. in vario senso, anche per riferimenti, Ciraolo, Certezza e stabilità delle relazioni familiari del minore. La stepchild adoption, in Corriere giur., 2017, 6, 798 ss.;Bilotti, L’adozione del figlio del convivente. A Milano prosegue il confronto tra i giudici di merito, in Famiglia e dir., 2017, 11, 93 ss.; Montecchiari, Adozione in casi particolari: la svolta decisiva della Suprema Corte di Cassazione per single e coppie di fatto, in Dir.fam. pers,2019/4, 1722 ss.) sono stati superati dalla giurisprudenza prevalente richiamata anche dalle SS. UU. nella sentenza 8 maggio 2019, in Foro it. 2019, I, 1951, che lo ha esplicitamente avallato.
[9] ) Quanto accade in queste vicende merita alcune considerazioni. Esse riguardano la condotta complessiva del “genitore biologico”, che in quanto tale è l’unico componente della coppia ad esercitare la responsabilità genitoriale sul minore. In tale posizione egli si trova in una posizione di speciale privilegio rispetto al partner, con cui ha condiviso il “progetto genitoriale” e la successiva cura del nato. Egli, infatti, non è chiamato solo ad esprimere il necessario consenso ex art. 46 l. n. 184/1983 all’adozione, ma l’eventuale suo rifiuto non è soggetto alla particolare disciplina dettata dall’inciso finale della prima parte del secondo comma dell’art. 46, secondo cui “quando è negato l’assenso [dei genitori o del genitore dell’adottando] previsto dal primo comma, il tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante, può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunciare ugualmente l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale …”. Ciò premesso, non può essere passato sotto silenzio che in questi casi il “genitore biologico” ha dapprima condiviso con altro soggetto quello specifico programma denominato “progetto genitoriale”, il quale è espressione, non già del fugace incontro di una notte, ma di una decisione intuitivamente meditata nel tempo e consapevole sotto il profilo oggettivo e soggettivo. Come noto, vi è una sensibile differenza tra procreazione naturale e procreazione artificiale: nella prima la volontà di procreare è assolutamente irrilevante, dal momento che l’elemento biologico è assorbente sia per l’uomo, sia per la donna, con la duplice precisazione che per quest’ultima è rilevante il fatto del parto (v. nota 1) e che essa ha la possibilità di decidere per l’aborto (v. Cass. 13 dicembre 2018, n. 32308, in Foro it., Rep. 2018, Filiazione, n. 49). Al contrario, nella p.m.a. la volontà di mettere al mondo un essere umano deve essere espressa, formalizzata per iscritto, consapevole e meditata (v. art. 6, l. n. 40/2004, che nel terzo comma prevede e disciplina espressamente uno specifico jus poenitendi). In altre parole, nella p.m.a. sono particolarmente enfatizzate la gravità e la delicatezza del procedimento, dal momento che esso esita nella venuta al mondo di un “innocente” sotto ogni riguardo, con ricadute parimenti gravi e delicate di natura affettiva, relazionale, sociale e giuridica per il minore diretto interessato, oltre che per la collettività, la cui portata non lieve è agevole misurare attraverso l’ampio contenzioso generato. Orbene, costei/costui, finita la relazione anche dopo diversi hanno durante i quali la coppia ha condiviso un rapporto di affetto e cura del minore, oppone un rifiuto all’adozione da parte dell’ex partner pur in presenza di un interesse dell’adottando accertato dal giudice di merito: in questo e negli altri casi analoghi il giudice del merito potrebbe probabilmente verificare la possibilità di inquadrare la fattispecie nella prospettiva dell’abuso del diritto, sintagma con il quale, sul modello dell’art. 833 c.c., si designa la condotta di chi eserciti un diritto senza altro scopo se non quello di nuocere ad altri (v. recentemente Cass. 14 giugno 2021, n. 16743, la quale origina pur sempre da vicende successive alla rottura del legame di coppia). Nella specie i soggetti lesi dell’abuso sono l’ex partner ed il minore.
[10] ) In Foro it., 2021, I, 27: v. in particolare § 9.1 dove si ribadisce che per il “genitore intenzionale” che intenda adottare il figlio del coniuge è disponibile l’adozione ex art. 44, l. n. 184/1983 e si aggiunge che una sua tutela più incisiva è rimessa alle scelte del legislatore.
[11] ) Si è osservato che con l’espressione “maternità surrogata” possono indicarsi una pluralità di fattispecie: v. Vallini, La schiava di Abramo, il giudizio di Salomone e una clinica di Kiev: contorni penali sociali e geografici della gestazione per altri, in Diritto penale e processo, 2017, 896 ss.
[12] ) In Foro it., 2018, I, 5, con nota di Casaburi
[13] ) V. ad es., anche per riferimenti, A.G. Grasso, Per un’interpretazione costituzionalmente orientata del divieto di maternità surrogata, in Teoria crit. Regolaz. Sociale, 2018, 2, 151 ss.;Salanitro, L’ordine pubblico dopo le Sezioni Unite: la Prima sezione si smarca … e apre alla maternità surrogata, in Il corriere giur., 2020, 7, 902 ss.
[14] ) G. Resta, Gratuità e solidarietà: fondamenti emotivi e “irrazionali”, in Ric. Critica dir. priv., 2014, 39 ss., 65.
[15] ) La ragionevolezza del dubbio esposto nel testo non sfugge neppure a chi sostiene la legittimità della maternità surrogata solidale: v. infatti Grasso, op. cit., 167, secondo cui “è, altresì, evidente che la presenza di un tale animo disinteressato si ritroverebbe principalmente in quelle persone legate da un vincolo di parentela ovvero di stretta amicizia con la coppia intenzionale; pur non potendosi comunque escludere la possibilità che una donna sia disposta a prestare il proprio grembo anche al di fuori di questi rapporti, sul modello della donazione degli organi tra viventi”. È inutile soffermarsi sull’assoluta diversità tra l’affitto dell’utero per una gravidanza, che attiene ad eventi cruciali e centrali della vita umana, e la donazione degli organi. Per cenni sul dibattito tenutosi oltre oceano in materia v. Di Masi, Dal contratto allo “status”, in Riv. Critica. Dir. priv., 2014, 615 ss., spec. 634 ss.
[16] ) v. le indicazioni offerte da Grasso, op. cit., 180, nota 138.
[17] ) grasso, op. cit., 167.
[18] ) V. in proposito Zatti, Di là dal velo della persona fisica. Realtà del corpo e diritti “dell’uomo”, in Maschere del diritto. Volti della vita, Milano, 2009, 53 ss.
[19] ) Con il termine “epigenetica” si descrivono tutte quelle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA (cfr. Levi, Epigenetica, voce dell’Enc. Italiana, IX Appendice, Roma, 2015)
[20] ) OXMAN, Maternal-Fetal Relationship and Non-Genetic Surrogates, in Jurimetrics, 1993, 33, 389; ALLAN, Commercial surrogate and child: ethical issues, regulatory approaches, and suggestions for change (Working paper) (May 30, 2014), 4.
[21] ) Pozzolo, Locatio ventris. Il corpo come mezzo e come fine, in Ragion pratica, 2021, 161 ss., 180 ss.
[22] ) Luccioli, Dalle sezioni unite un punto fermo in materia di maternità surrogata, in Foro it., 2019, I, 4027 ss.
[23] ) Becchi, Il principio della dignità umana2, Brescia, 2013, 7 ss.; Maganzani, La dignità umana negli scritti dei giuristi romani, in Dignità e diritto. Prospettive interdisciplinari, 2/2010, 85 ss.; Id., Appunti sul concetto di dignità umana a partire dalla casistica giurisprudenziale romana, in Studia et documenta historiae et juris, 2011, 521 ss.
[24] ) V. Viola, Il tramonto dell’etica dell’onore, in Etica e metaetica dei diritti umani, Torino, 2000, 3 s.; Tarantino, Autonomia e dignità della persona umana, Milano, 5 ss.
[25] ) V. la sintesi di Busnelli¸ Le alternanti sorti del principio di dignità della persona umana, in Riv. Dir. civ., 2019, 5, 1071 ss.
[26] ) V. ampiamente Rosen, Dignity. Its history and meaning, Harvard University Press, Cambridge (MA), London (EN), 2012.
[27] ) Non a caso si è osservato che “la dignità è un ponte dagli orrori. Errori e le angosce del passato verso i fantasmi, le inquietudini e le paure del presente e del futuro (Flick, Elogio della dignità, Stato Città Vaticano, 2015, 17).
[28] ) Becchi, op. cit., 75, ivi riferimenti. L’accostamento dell’uomo a Dio in forza dell’intelletto, delle capacità razionali e della dignità che ne deriva all’uomo è già in Aristotele: v. per indicazioni Tarantino, op. cit., 7.
[29] ) Mastropietro, Dignità umana, Parte etica, ebraismo, voce dell’Enc. Di bioetica e scienze giuridiche, IV, Napoli, 2011, 283 ss.
[30] ) Abbagnano, Storia della filosofia, 2, La filosofia moderna: dal Rinascimento all’Illuminismo, Milano, 2017, 548 ss. Il concetto di “dignità” è così enunciato da Kant, La metafisica dei costumi, traduz. It. a cura di G. Vidari, Roma-Bari, 1983, 333 ss.: “ogni uomo ha il diritto di esigere il rispetto dei suoi simili, e reciprocamente è obbligato egli stesso al rispetto verso gli altri. L’umanità stessa è una dignità, poiché l’uomo non può essere trattato da nessuno (cioè né da un altro e neppure da lui stesso) come un semplice mezzo, ma deve sempre essere trattato nello stesso tempo come un fine; e precisamente in ciò consiste la sua dignità (la sua personalità), per cui egli solo si eleva al di sopra di tutti gli altri esseri della natura che non sono uomini, destinati per questo appunto a servirgli come strumento, ma anche di conseguenza si innalza al di sopra di tutte le cose. Come l’uomo non può vendere se stesso a nessun prezzo (ciò che sarebbe contrario al dovere della stima verso se stesso), così egli non può agire contrariamente al rispetto che gli altri devono necessariamente a loro stessi come uomini, vale a dire è obbligato a riconoscere praticamente la dignità dell’umanità in ogni altro uomo”: come si vede, il brano, pur sottolineando che dignità equivale a intrinseca meritevolezza di rispetto dell’uomo, non precisa le ragioni ultime di tale meritevolezza di rispetto, dell’impossibilità che l’uomo sia trattato come “semplice mezzo”, della superiorità dell’uomo rispetto a “tutti gli altri esseri della natura” e alle cose. Questi aspetti sono esposti da Kant nelle prime pagine della Metafisica e consistono in definitiva nel connubio tra libertà e ragione che determina la capacità dell’essere umano di agire in vista del conseguimento di fini da lui medesimo prestabiliti e postulati da Kant come intrinsecamente morali. Ulteriori precisazioni sui testi kantiani di riferimento in Tarantino, op. cit.¸ 37 ss.
[31] ) Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Torino, 2010, 48.
[32] ) Indicazioni non diverse sembra possibile trarre dall’art. 1 della Convenzione di Oviedo (“Convenzione per la protezione dei Diritti dell’Uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazioni della biologia e della medicina : Convenzione sui Diritti dell'Uomo e la biomedicina”, del 4 aprile 1997), il quale sembra porre la garanzia offerta dagli Stati all’integrità e ai diritti fondamentali dell’individuo in funzione strumentale rispetto alla protezione della “dignità” dell’individuo medesimo (sul punto v. Becchi, op. cit., 9 ss., 28 ss.).
[33] ) Becchi, op. cit., 52.
[34] ) Per cenni sulla “nuova antropologia del lavoro” dominante nel Novecento e volta a valorizzare il “lavoro produttivo” v. Accornero, Era il secolo del lavoro, Bologna, 2000, 30 ss. Sul piano normativo in Italia il collegamento tra cittadinanza e lavoro ha un antecedente nella dichiarazione II della Carta del Lavoro (sulla quale v. Cesarini Sforza, Intorno alla seconda dichiarazione della Carta del Lavoro, ora in Il corporativismo come esperienza giuridica, Milano, 1942, 225 ss.), le cui dichiarazioni – come noto – costituivano “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato e … criterio direttivo per l’interpretazione e l’applicazione della legge” (art. 1, l. 30 gennaio 1941, n. 14).
[35] ) V. anche per riferimenti Becchi, op. cit., 43; Tarantino, op. cit., 50 ss.
[36] ) V. ancora – benché non perfettamente coincidente con le affermazioni del testo - Becchi, op. cit.,53 ss.
[37] ) Becchi, op. cit., 60 ss.
[38] ) Viola, L’etica dello sviluppo tra diritti di libertà e diritti sociali, in Etica e metaetica dei diritti umani, cit.,75.
[39] ) G. Resta, La dignità, in Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Milano, 2010, I, 259 ss.
[40] ) Ne discute criticamente Zatti, Note sulla dignità, in Maschere del diritto, volti della vita, Milano,2009, 40 ss.
[41] ) Macklin, Dignity is a Useless Concept, in British Medical Journal, 327 (2003),
[42] ) È sufficiente rinviare a Di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. Crit. Dir. priv., 1984, 539 ss.; Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Il principio di buona fede, Milano, 1987, 249 ss.; Falzea, I principi generali del diritto, in Riv. Dir. civ., 1991, I, 455 ss. Più in generale Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, ed it. Milano, 1970.
[43] ) Vallini, Procreazione medicalmente assistita (diritto penale), voce dell’Enc. dir., Annali IX, Milano, 696 ss., 700.
[44] ) G. Fornero, Laicità, voce dell’Enc. Di bioetica e scienze giur., VII, Napoli, 2014, 771 ss.
[45] ) Cfr. P. Rescigno, L’autodeterminazione della persona: il faticoso cammino del diritto positivo, in Riv. Critica dir. priv., 2018, 13 ss., 20.
[46] ) Del “principio di laicità” si è condivisibilmente detto che viene spesso manovrato come “una carta di briscola che tronca sul nascere ogni questione”: v. Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, in Europa e dir. priv., 3/2019, 713 ss., 730.
[47] ) È un’espressione di Kahn, Reproducing Jews: a cultural account of assisted conceptionin Israel, London, 2000, cit. da Marchesi, La procreazione politicamente assistita: ordine, disordine e restaurazione dei conflitti sociali, in Lombardi – De Zordo, La procreazione medicalmente assistita. Generi, tecnologie, diseguaglianze, Milano, 2013, 69 ss., 71, che probabilmente nell’intenzione dell’autore era priva di particolare significato, ma che certamente è eloquente.
[48] ) V. Viggiani Alcune questioni preliminari in materia di gestazione per altri, in Ragion pratica, 2021, 141 ss.; Cassano, Maternità “surrogata”: contratto, negozio giuridico, accordo di solidarietà, in Famiglia dir., 2000, 162 ss.
[49] ) V. ancora Viggiani, op. cit., 153.
[50] ) Vesto, op. cit., 24.
[51] ) Saraceno, Coppie e famiglie. Non è una questione di natura, nuova ediz. Aggiornata, Milano, 2016, 101.
[52] ) Saraceno, op. ult. cit., 99.
[53] ) v. tra molti ad es. Apostoli, La gestazione per altri ed il giudice delle leggi, in Ragion pratica, 2021, 193 ss.;Bilotti, Convivenze, unioni civili, genitorialità, adozioni, in Dir. fam. Pers., 2017/3, 873 ss.; Balestra, Affidamento dei figli e convivenza omosessuale tra «pregiudizio» e interesse del minore, in Corriere giur., 2013, 893; Belelli, La filiazione nella coppia omosessuale, in Rescigno- Cuffaro (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto: la legge, in Giur. it., 2016, 1771; Cristiani, Trascrizione di filiazione accertata all'estero nell'ambito di un matrimonio omosessuale, id., 2015, 1348; Ferrando, I rapporti tra genitori e figli nelle coppie dello stesso sesso, in AA.VV., Filiazione – Lo status tra favor veritatis e favor minoris, in Riv. ass. it. avv. famiglia e minori, 2019, 3; Lenti, Unione civile, convivenza omosessuale, in AA.VV., Modelli familiari e nuovo diritto (atti del convegno, Padova, 7-8 ottobre 2016), in Nuova giur. civ., 2016, 1661; Nicolussi, Famiglia e biodiritto covile, in Europa e dir. priv., 2019, 3, 713 ss.;Figone, Divieto di riconoscimento nello Stato italiano di ipotesi di maternità surrogata, in Minori giustizia, 2015, fasc. 2, 221; Casaburi, Le alterne vicende delle nuove forme di genitorialità nella giurisprudenza recente, in Foro it., 2019, I, 2003 ss.;Lucchini Guastalla, Maternità surrogata e best interest of the child, in Nuova giur. civ., 2017, 1722; Perlingeri, Ordine pubblico e identità culturale - Le sezioni unite in tema di c.d. maternità surrogata, in Dir. successioni e famiglia, 2019, 337; Rivera, La complessa questione della maternità surrogata tra rispetto dell'ordine pubblico e protezione del best interest of the child: un percorso ermeneutico non sempre coerente, in Maggioni – Ronfani (a cura di), Il diritto di fronte alle trasformazioni delle relazioni di filiazione e di genitorialità, in Sociologia dir., 2020, fasc. 1, 41; Saraceno, Dalla coppia alla genitorialità delle persone dello stesso sesso, in Genius, 2014, fasc. 2, 120; Nazzaro, Discrezionalità legislativa e ruolo del giudice nella nuova dimensione (bio)etica della famiglia, in Rivista AIC, 1/2018; C. Rimini, L’affidamento familiare ad una coppia omosessuale: il diritto del minore ad una famiglia e la molteplicità dei modelli familiari, in Corr. Giur., 2014, 2, 155 ss.
[54] ) Il rilievo è di Bona, La filiazione omosessuale tra “rivoluzione arcobaleno” e “diritto postmoderno”, in Foro it., 2021, I, 39 ss. Per un quadro delle posizioni c.d. “arcobaleno” v. anche per riferimenti La famiglia omogenitoriale in Europa, a cura di Schuster – Toniollo, Roma, 2015.
[55] ) Toniollo, Vivere l’arcobaleno, in La famiglia omogenitoriale in Europa, cit., 9 ss., spec. 11 ss., la quale peraltro non indica quali sarebbero precisamente gli studi “nazionali e internazionali” cui fa riferimento.
Saraceno, Coppie e famiglie, cit., registra un dato analogo presso l’orientamento accennato nel testo, ossia la ricorrente affermazione di una asserita superiorità qualitativa della “famiglia scelta”, cioè omosessuale, rispetto alla “famiglia data”, cioè eterosessuale. Per uno scenario meno da “famiglia del mulino bianco” a proposito del rapporto tra coppie omosessuali v. le indicazioni presenti in Guizzardi, Famiglie nate dalla surrogacy e vulnerabilità: alcuni percorsi di analisi, in Pol. Dir., 2021/2, 193 ss.
[56] ) V. ad es. Ciraolo, Certezza e stabilità delle relazioni familiari del minore. La stepchild adoption, in Corr. Giur., 2017, 6, 798 ss., par. 6, la quale scrive che “il progetto di genitorialità sembra manifestare aspirazioni strettamente individuali perseguite con tanta fermezza e determinazione da indurre l'ideatore del medesimo, anzitutto, ad aggirare ogni prescrizione normativa in grado di ostacolare il desiderio procreativo e, successivamente, a rinvenire nell'ordinamento disposizioni da potere interpretare in modo tale da soddisfare il connesso programma di vita familiare. Un atteggiamento di questo tipo pare flettere le relazioni familiari all'"egoistica e gelosa realizzazione di sé", mediante asservimento dei rapporti intersoggettivi instaurati tra i membri della comunità familiare al conseguimento della più completa e soddisfacente attuazione di bisogni ed esigenze assolutamente personali. Da qui la resistenza ad accogliere proposte ermeneutiche che comportino il rischio di smarrimento della funzione solidaristica dell'adozione semplice”.
[57] ) Pozzolo, op. cit., 177 ss.
[58] ) Trib. Roma 8 agosto 2014 riportato in nota 7.
[59] ) Zatti, Maternità e surrogazione, in Maschere del diritto. Volti della vita, cit. 205 ss, 221.
[60] ) Corte Cost. 10 giugno 2014, n. 162, sulla quale ci si soffermerà immediatamente infra nel testo, ha dedicato alla questione un significativo passaggio: “la questione del diritto all’identità genetica … si è posta in riferimento all’istituto dell’adozione e sulla stessa è recente intervenuto il legislatore, che ha disciplinato l’an ed il quomodo del diritto dei genitori adottivi all’accesso alle informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici dell’adottato (art. 28, 4° comma, l. 4 maggio 1983 n. 184, recante «diritto del minore ad una famiglia», nel testo modificato dall’art. 100, 1° comma, lett. p, d.leg. n. 154 del 2013). Inoltre, in tale ambito era stato già infranto il dogma della segretezza dell’identità dei genitori biologici quale garanzia insuperabile della coesione della famiglia adottiva, nella consapevolezza dell’esigenza di una valutazione dialettica dei relativi rapporti (art. 28, 5° comma, l. n. 184 del 1983). Siffatta esigenza è stata confermata da questa corte, la quale, nello scrutinare la norma che vietava l’accesso alle informazioni nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata, ha affermato che l’irreversibilità del segreto arrecava un insanabile vulnus agli art. 2 e 3 Cost.)”.
[61] ) Su questo aspetto v. Giacobbe, Due non è uguale a uno più uno. Bigenitorialità e rapporti omoparentali, in Dir. Fam. Pers., 2019, 233 ss., 241 s.;Vesto, op. cit., 24; Savi, Procreazione e filiazione: le azioni di status filiatonis ed il canone di rispondenza a veridicità, in Diritto di famiglia e delle persone, 2020, 4, 1732 ss.
[62] ) Cfr. Saraceno, op. ult. cit., 63 s.
[63] ) Saraceno, op. ult. cit., 102.
[64]) Foro it. 2014, I, 2324: la sentenza dichiarò incostituzionale l’art. 4, terzo comma, (e le disposizioni ad esso connesse) l. 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui vietava il ricorso tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche nelle ipotesi in cui fosse stata diagnosticata una patologia tale da determinare una sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. Data la sua importanza essa può leggersi anche in Dir. pen. e proc., 2014, 825, con nota di VALLINI; Famiglia e dir., 2014, 753, con nota di CARBONE; in Riv. Nel diritto, 2014, 1581, con nota di DE LUNGO; in Corriere giur., 2014, 1062, con nota di FERRANDO; in Dir. famiglia, 2014, 973, con nota di D'AVACK; in Nuova giur. civ., 2014, I, 802, con nota di FERRANDO; in Guida al dir., 2014, fasc. 27, 16, con nota di PORRACCIOLO, TONA; in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 1473, con nota di RISICATO; in Europa e dir. privato, 2014, 1105, con nota di CASTRONOVO; in Giur. it., 2014, 2827 (m), con nota di LA ROSA; in Giur. costit., 2014, 2563, con nota di TRIPODINA; in Quaderni dir. e politica ecclesiastica, 2014, 629, con nota di VARI; in Dir. famiglia, 2014, 1289 (m), con nota di CICERO, PELUFFO; in Dir. successioni e famiglia, 2015, 511, con nota di ANNUNZIATA.
[65] ) In Foro it., 2019, I, 3782. La sentenza ha dichiarato “infondate le questioni di legittimità costituzionale degli art. 5 e 12, 2°, 9° e 10° comma, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui limitano l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle sole coppie di sesso diverso, sanzionando di riflesso chiunque applichi tali tecniche a coppie composte da soggetti dello stesso sesso (nella specie, una coppia formata da due donne), in riferimento agli art. 2, 3, 31, 2° comma, 32, 1° comma, e 117, 1° comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli art. 8 e 14 Cedu”.
[66] ) in Foro it., 2021, I, 27 ss. La sentenza ha dichiarato “inammissibile, trattandosi di soluzione non costituzionalmente imposta e quindi di competenza del legislatore, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, 20° comma, l. 20 maggio 2016 n. 76, nella parte in cui, limitando l'applicabilità delle leggi speciali alle coppie di donne omosessuali unite civilmente ai soli diritti e doveri nascenti dall'unione civile, preclude loro la possibilità di essere indicate entrambe quali genitori nell'atto di nascita quantunque siano unite civilmente ed abbiano fatto, con scelta condivisa, ricorso alla procreazione medicalmente assistita effettuata all'estero, in riferimento agli art. 2, 3, 1° e 2° comma, 30 e, in relazione agli art. 24, par. 3, della carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, 8 e 14 Cedu e alla convenzione di New York sui diritti del fanciullo, 117, 1° comma, Cost.”.
[67] ) In senso conforme v. anche Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96, in Foro it., 2015, I, 2250.
[68] ) Si legge precisamente nella sentenza n. 221/2019 che “l'infertilità «fisiologica» della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all'infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l'infertilità «fisiologica» della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti” (par. 12 della motivazione) e ciò perché – prosegue la sentenza nel par. 17 – “la presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell'ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante — ai fini che qui interessano — nell'ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso”.
[69] ) In Foro it., 2020, I, 31. La sentenza nella motivazione ribadisce che “Non è pertanto censurabile il fatto che «allo stato», nel nostro ordinamento, è «escluso che genitori di un figlio possano essere due persone dello stesso sesso»” (par. 3.1.1).
[70]) La corte costituzionale ha cura di sottolineare che il suo approccio al problema della genitorialità non naturale, inevitabilmente caratterizzante le coppie omosessuale è condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale “ha affermato che una legge nazionale che riservi l'inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di un'ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli art. 8 e 14 Cedu: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte eur. diritti dell'uomo 15 marzo 2012, Gas e Dubois c. Francia)”.
[71] ) Non è mancato, infatti, chi ha stilato una sorta di classifica delle sentenze emesse in materia dalla Corte Costituzionale sulla base della loro “correttezza politica”.
[72] ) V. in proposito Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Torino, 2010, 14 ss.
[73] ) Sugli spazi di indagine del giudice v. i perspicui rilievi di Luccioli, op. cit., laddove scrive che “l'operazione che tende ad identificare l'interesse superiore del minore con la mera conservazione di un legame inteso come formativo della sua personalità individuale e sociale, prescindendo dall'età del bambino, dalla durata e dalla qualità del rapporto con i committenti, dalla stessa idoneità di questi ad esercitare le funzioni genitoriali, non soggetta ad alcuna forma di verifica preventiva come avviene nell'adozione, nasconde una posizione ideologica e del tutto astratta, perché prescinde da ogni riferimento alla vita di quel determinato minore ed alla concretezza dei suoi bisogni”.
[74] ) Bilotti, L'adozione del figlio del convivente. A Milano prosegue il confronto tra i giudici di merito, in Famiglia e dir., 2017, 1003
[75] ) Acierno, La Corte costituzionale “minaccia” un cambio di passo sull’omogenitorialità?, in www.Questionegiusitizia.it 2021, il virgolettato nel testo è mio.
[76] ) Qui è sufficiente rinviare anche per riferimenti a Velluzzi, commento agli articoli 12, 13 e 14 delle Preleggi, in Delle persone, I, a cura di Barba e Pagliantini, Commentario del Codice civile (diretto da Gabrielli), Torino, 2012, 215 ss.; Id., Le preleggi e l’interpretazione. Un’introduzione critica, Pisa, 2013
[77] ) Paradiso, Au bon marché de droit. Tra globalizzazione dei diritti e delocalizzazione della procreazione, in Riv. Dir. civ., 2018, 4, 983 ss.
[78] ) Castronovo, Il passo (falso) della Corte costituzionale, in Europa e dir. priv., 2014/3, 1117 ss.
[79] ) Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello stato costituzionale, Bologna, 2010, 69 s.
[80] ) Saraceno, op. ult. cit., 48
[81] ) Vallini, Procreazione medicalmente assistita, voce cit., 699.
[82] ) Saraceno, op. loc. ult. cit.
[83] ) Saraceno, op.ult. cit., 5.
[84] ) Su cui si sofferma Saraceno, op. cit., 55.
[85] ) V. ancora Saraceno, op. ult. cit., 18; Remotti, Famiglia, matrimonio e parentela in etnografia, voce del Dig. Civ., VIII, Torino, 1992, 203 ss..
[86] ) Su questa interpretazione v., anche per riferimenti, Bessone, op. cit., 11 ss.;Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, 33 ss.
[87] ) Il quale ovviamente non faceva mistero di tale programma: v. Jemolo, La famiglia ed il diritto, in Annali del seminario giur. Univ. Catania, 1949, ora in www.academia.edu.
[88] ) Sesta, Manuale di diritto di famiglia9, Padova, 2021, 2 ss.
[89] ) sesta, op. cit., 7. Al riguardo, si è a suo tempo argomentato che l’art. 29 Cost., in quanto specificazione dell’art. 2 Cost., sarebbe soggetto ad una particolare integrazione, nel senso che, per qualificare quella particolare “società” in cui consiste la famiglia, il termine “naturale” deve intendersi come “sociale” (Barcellona, Famiglia, voce dell’Enc. Dir., XVI, Milano, 1967, 779 ss., 782).
[90] ) Saraceno, op. ult. cit., 104.
[91] ) V. infatti Barcellona, voce cit., 781.
[92] ) V. già S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, rist. inalterata, Milano, 1983, 119 ss.; più recentemente ad es. Barberis, Manuale di filosofia del diritto, Torino, 2010, 81; Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, 31 s. Ulteriori rilievi critici in Renda, op. cit., 38 ss. L’interpretazione discussa nel testo è stata qualificata “sistematica” dai suoi fautori.
[93] ) Esposito, Famiglia e figli nella costituzione italiana, in La Costituzione italiana. Saggi, Milano, 1954, 135.
[94] ) L’espressione è tratta da Esposito, op. cit., 138, il quale osservò che sono in primo luogo i “legami di sangue” che, essendo essenzialmente “legami naturali”, “rendono la famiglia società naturale”.
[95] ) Levy-Strauss, Antropologia, voce dell’Enc. Novecento, Roma, 1975, I, 202 ss.
[96] ) Remotti, op. cit., par. 4; Kottak, Antropologia culturale2, ediz. It., Milano, 2012, 222, il quale ribadisce che per “famiglia nucleare” si intende “un tipo di gruppo di parentela … costituita da genitori e figli che generalmente vivono insieme all’interno dello stesso nucleo familiare”. Non diversamente Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, cit. 34 ss., dedica molte pagine sulla “singolarità” della “credenza” – prevalsa in passato – che le società preindustriali fossero ordinate su gruppi familiari ampi e complessi.
[97] ) V. infatti Pino, op. cit., 70, il quale ritiene di poter etichettare come “presunti” i risultati delle ricerche sul campo effettuate da antropologi ed etnologi in merito all’organizzazione sociale della procreazione, senza offrire alcun dato di segno opposto. Di fronte a tanta autoreferenzialità non sono possibili – e forse neppure ammesse – repliche.
[98] ) Sono eccezioni sulle quali talora sembra esservi una qualche enfasi. Sulla base di esse si può infatti scrivere che “l’etnografia e la storia che ci dicono che la famiglia nucleare, nella forma in cui noi la conosciamo e la costruiamo, è una forma non universale di organizzazione dei rapporti di riproduzione e di regolazione dei rapporti sociali” (Signorelli, Antropologia culturale2, Milano, 2011, 137; Kottak, op. cit., 222 s.) (mio il corsivo).
[99] ) V. ancora Remotti, op. cit., par. 4.
[100] ) Ma v. in proposito Renda, op. cit., 49 ss.
[101] ) V. anche per riferimenti Sgreccia, Legge di Hume e fallacia naturalistica, voce dell’Enc. Di Bioetica e scienza giuridica, VII, Napoli, 895 ss.;Paltrinieri, La natura come giustificazione. Kant e la fallacia naturalistica di George Moore, Venezia, 1997, 4 ss.; Miller – Vandome – McBrewster (ed.), Naturalistica fallacy, USA, 2010.
[102] ) Cremaschi, L’etica analitica. Dalla legge di Hume al principio di Kant, in Campodonico (cur.), Tra legge e virtù. La filosofia pratica angloamericana contemporanea, Genova, 2004.
[103] ) Lecaldano, La fallacia naturalistica e l’etica inglese del Novecento, in Riv. Filosofia, 1970, 191 ss.; Borri, Natura. Morale. Diritto. Dalla metaetica analitica al neurodiritto, Tesi in dottorato di ricerca, disponibile in https://boa.unimib.it.
[104] ) Churchland, Neurobiologia della morale, trad. it., Milano, 2012, 21 ss., 90 ss., 140 ss.
[105] ) V. infatti Churchland, op. cit., 21 e 216 ss.: “nella prospettiva delle neuroscienze e dell’evoluzione del cervello, l’usuale rifiuto degli approcci scientifici al comportamento morale basato sul monito di Hume contro la derivazione del dover essere dall’essere sembra inopportuno … Tale rifiuto può essere messo da parte a favore di una più profonda … prospettiva neurobiologica su cosa siano il ragionamento e la soluzione di problemi, su come funzioni la navigazione sociale, come sia compiuta la valutazione dai sistemi nervosi e come i cervelli dei mammiferi prendano le decisioni”.
[106] ) Barberis, op. cit., 69.
[107] ) V. ampiamente Falzea, Efficacia giuridica, ora in Voci di teoria generale del diritto, Milano, 1985, 241 ss.
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