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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 15/10/2024 Scarica PDF

L’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc): il corto circuito del Sistema Antimafia

Cristiana Rossi, Amministratore giudiziario. Già coadiutore ANBSC


L’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata altrimenti detta Anbsc è stata istituita con decreto-legge 4 febbraio 2010, n, 4 convertito in legge 31 marzo 2010, n. 50 e oggi recepita dal D.lgs. n. 159 del 6 settembre 2011 (cosiddetto Codice Antimafia).

L'Anbsc è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico dotato di autonomia organizzativa e contabile e vigilato dal ministro dell'Interno con sede principale a Roma e secondarie a Reggio Calabria, Palermo, Napoli e Milano.

L’Agenzia è nata per occuparsi del processo di destinazione dei beni una confiscati in via definitiva dall’autorità giudiziaria e quindi appresi definitivamente al patrimonio dello Stato.

Con la riforma introdotta con la l. 161/2017 l’Agenzia interviene nel procedimento di prevenzione fin dal momento della disposizione della misura cautelare del sequestro ex art. 20 D.lgs. n. 159/2011 attraverso la trasmissione alla stessa da parte del tribunale della prevenzione del decreto di sequestro emesso e di tutti gli atti successivi.

Con deliberazione del 2 maggio 2023, n. 34/2023/G la Sezione Centrale di Controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato ha redatto un’interessante relazione sull’attività svolta dall’Agenzia Nazionale.

La Corte ha intitolato il Capitolo V “Il ruolo degli amministratori e dei coadiutori” dedicandolo interamente alla figura professionale dell’amministratore giudiziario affermando “Il Codice antimafia, agli articoli dal 35 al 41 bis, reca le disposizioni vigenti in ordine alla nomina ed all’attività degli amministratori e coadiutori giudiziari. Si tratta, invero, di figure professionali di grande importanza ai fini della conservazione e dell’impiego dei patrimoni di illecita provenienza”.

Nel paragrafo quattro del citato capitolo, la Corte non soltanto affronta la tematica attinente le modalità di quantificazione dei compensi dei coadiutori, ma fornisce una chiara fotografia sullo stato delle richieste di pagamento dei compensi, dei tentativi di soluzione del forte arretrato nella corresponsione degli stessi e soprattutto dell’attuale e gravissimo contenzioso in atto con gli stessi coadiutori ai quali viene negato il diritto al proprio compenso proprio mediante il mancato pagamento dello stesso. Il maggiore contenzioso riguarda quei professionisti ai quali è stato affidato l’incarico per la gestione delle aziende sottoposte a sequestro e, in alcuni casi, a confisca.

La Corte rappresenta come in molti casi l’Agenzia Nazionale promuove tramite l’Avvocatura Generale dello Stato opposizione a decreti ingiuntivi sebbene in molti casi avesse preventivamente richiesto l’autorizzazione al giudice delegato per provvedere al pagamento di tali crediti che la stessa ha definito certi, liquidi ed esigibili.

Stesso tipo di problematica si presenta anche nei confronti dei professionisti incaricati che prestano la propria opera in favore di aziende confiscate.

La problematica che riguarda il mancato pagamento dei compensi e quindi lo sfruttamento dei propri coadiutori da parte dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (per brevità semplicemente definita dagli addetti ai lavori anche Agenzia Nazionale ovvero ANBSC) ha una grande rilevanza di interesse pubblico come si può chiaramente percepire dalle note di chiusura della citata deliberazione del 02 maggio scorso n. 34/2023/G intitolata Relazione su ANBSC redatta dalla Sezione controllo della Corte dei Conti sulla Gestione delle Amministrazioni dello Stato. Detto documento si conclude con le seguenti considerazioni Il tema è rilevante in quanto riguardante professionisti cui viene affidata la gestione di beni ed aziende, sovente richiedenti particolare impegno e competenza. L’instaurarsi di una certa diffidenza o sfiducia tra loro e l’Agenzia potrebbe ripercuotersi sull’efficacia delle reciproche azioni, impattando negativamente sulle stesse finalità della normativa antimafia, finendo con l’ostacolare la restituzione dei cespiti ai circuiti legali”.

Pur essendo la normativa antimafia molto specifica e tecnica, non si può non rilevare che quanto affermato dalla Corte dei Corte è un concetto talmente semplice, chiaro e lineare che risulta comprensibile a chiunque non appartenga alla cosiddetta categoria degli addetti ai lavori. Non si tratta soltanto di un mancato riconoscimento del diritto alla retribuzione negato per anni ad una categoria di lavoratori-professionisti qualificati, ma vi è molto di più trattandosi di un ambito professionale così specializzante e delicato, di assoluto interesse pubblico al quale lo stesso Codice Antimafia riconosce la priorità di trattazione dei procedimenti di prevenzione. Ciò che più danneggia l’immagine dello Stato che lotta contro il fenomeno mafioso - qualunque esso sia – è l’impegno a non pagare i propri coadiutori che somiglia più ad un accanimento contro la categoria dei coadiutori. Vi è difatti un grande dispiegamento di energie e risorse che convergono tutte verso un unico obiettivo: non pagare il compenso maturato dal coadiutore. Si scomoda persino l’Avvocatura dello Stato per promuovere opposizione ai decreti ingiuntivi anche immediatamente esecutivi – titoli esecutivi portatori di crediti già verificati da un giudice civile – come prassi dilatoria per bloccare la procedura di pagamento sfruttando la lentezza della giustizia civile come arma da puntare contro i suoi stessi coadiutori, come emerge chiaramente dal citato documento della Corte dei Corte.

È dunque prassi dello Stato affidare incarichi professionali a professionisti qualificati senza avere l’intenzione di corrispondere loro il compenso dovuto, che non viene stabilito arbitrariamente ma è disciplinato chiaramente dal D.P.R. n. 177/2015 il quale riporta in conclusione la seguente clausola: “Dall'attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato”.

Eppure, senza i coadiutori l’Agenzia Nazionale non è in grado di amministrare i patrimoni confiscati e quindi non potrebbe svolgere alcuna attività di destinazione dei beni raggiungendo la finalità di recupero degli stessi al cosiddetto circuito della legalità!

Questo lo sa bene il Prefetto Bruno Corda - già direttore dell’Agenzia Nazionale - che a maggio 2023 ha stipulato con il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili un protocollo d’intesa per la formazione professionale dei propri dipendenti. La recente modifica del codice antimafia apportata con la legge 161/2017 prevede la possibilità di nominare – fin dalla fase cautelare del sequestro - il personale dell’Agenzia Nazionale quale amministratore giudiziario invece di nominare un libero professionista iscritto all’ordine dei dottori commercialisti o degli avvocati. Viene spontaneo chiedersi se la vera intenzione dello Stato sia quella di avocare a sé - quindi alla pubblica amministrazione - in via esclusiva questo delicatissimo settore accentratore di molteplici e rilevanti interessi economici. Vero è che gli impiegati pubblici distaccati all’ANBSC da altre amministrazioni centrali dello Stato per brevi e variabili periodi di tempo, sono completamente carenti delle competenze professionali – da noi acquisite in anni e anni di professione - necessarie per l’amministrazione dei patrimoni confiscati, e non è sufficiente davvero partecipare a qualche evento formativo organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti per acquisire competenza ed esperienza per svolgere tale delicatissima funzione pubblica. La modalità di gestione della fase di pagamento o, meglio, mancato pagamento dei citati compensi rappresentata chiaramente nella relazione della Corte di Conti coincide con la versione riferita da moltissimi coadiutori su territorio nazionale che si vedono costretti a combattere in tribunale per il riconoscimento del loro diritto alla retribuzione. L’elemento che aggrava la modalità di gestione della problematica da parte dell’ANBSC ed emersa dal confronto con molti colleghi, è il continuo tentativo di screditare le competenze professionali del coadiutore stranamente, anzi strumentalmente, soltanto al momento in cui lo stesso richiede il pagamento del proprio compenso, quasi a volte forzatamente e sottilmente a voler sottintendere la tesi “tu hai lavorato male ed io non ti pago”.

Un’altra motivazione che viene utilizzata dall’Agenzia Nazionale è la pretesa della produzione da parte del coadiutore di un modello istituito ed utilizzato in ambito militare per la gestione delle somme fuori bilancio (dello Stato ovviamente). Si tratta del Modello B denominato Rendiconto Finanziario che però al suo interno - in contrasto con tutte le regole ragionieristiche – riporta voci imputabili al Bilancio di Cassa. Ebbene, senza entrare troppo nel tecnico, tutti sanno che la parola “cassa” evoca il denaro contante, mentre i professionisti – amministratori giudiziari prima e coadiutori poi – amministrano esclusivamente somme depositate sui conti correnti assolvendo così ai principi di trasparenza e tracciabilità, sempre sotto la vigilanza del giudice delegato. La normativa impone l’obbligo di rendiconto in capo all’amministratore giudiziario (e non al coadiutore) che dalla confisca di secondo grado fino alla conclusione della fase di destinazione del bene è ricoperto ex lege proprio dall’ANBSC, che amministra si dice “per consto di chi spetta” poiché il bene/patrimonio verrà acquisito al patrimonio dello Stato soltanto in seguito all’emissione da parte dell’Autorità Giudiziaria del decreto di confisca definitiva.

Ciò significa che questa fase non è di pertinenza della finanza pubblica – pur essendo la procedura di supremo interesse pubblico – e che l’amministrazione del patrimonio segue dunque tutte le regole stabilite dal Codice civile nonché quelle contenute nell’art. 593 c.p.c. rubricato per l’appunto Rendiconto. Si tratta dunque di una rendicontazione avente una natura esclusivamente giudiziaria resa all’interno di un procedimento e non di contabilità pubblica, essendo riferito all’amministrazione di un patrimonio ancora privato e non di un patrimonio pubblico.

Il rendiconto finanziario inteso come documento di finanza pubblica soggetto alle verifiche della Corte dei conti è quello che invece deve redigere l’ANBSC in quanto pubblica amministrazione essendo un’agenzia governativa sottoposta alla vigilanza del Ministro dell’Interno. Per essere ancora più precisi, quando i patrimoni vengono acquisiti al patrimonio dello Stato, in realtà vengono acquisiti dal MEF e non dall’Agenzia Nazionale che invece è il soggetto al quale è affidato per legge in via esclusiva l’incarico di curare la destinazione dello stesso. Da ciò ne deriva – tra l’altro – che il soggetto che dovrà rendicontare sul patrimonio dal momento in cui è stato emesso il decreto di confisca definitiva è il MEF e non l’ANBSC e men che mai il suo coadiutore.

A questo punto è spontaneo chiedersi se tali motivazioni vengano strumentalmente utilizzate per raggiungere contemporaneamente due obbiettivi: non corrispondere il compenso dovuto ai coadiutori e contemporaneamente scaricare su di essi la responsabilità di una gestione ad essi non spettante.


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