Civile


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 20/01/2025 Scarica PDF

Una occasione perduta nel difficile rapporto della nostra giurisprudenza con il diritto uniforme

Claudio Pezzi, Avvocato, LLM - Bologna


(Commento a Cass. Sez. I, ord. 20 dicembre 2024, n. 33599)

  


La vicenda ha per oggetto la famosa fotografia dei giudici Falcone e Borsellino, colti durante una occasione pubblica a scambiarsi uno sguardo di intesa. Una fotografia estremamente nota e apprezzata che ha assunto anche forti valori simbolici per il tragico destino riservato ai due protagonisti. I tentativi del fotografo di vedere riconosciuta la qualità di opera ex art 2 L. 633/1941 alla propria fotografia sono stati respinti dai giudici di merito e ora dalla Corte di legittimità con argomenti che prestano il fianco a critiche.

La materia del copyright sembra indigesta alla Corte che nel tentativo di definire il concetto di opera fotografica introduce elementi fuorvianti e perde l’occasione di fornire una chiara definizione del diritto applicabile alla materia. Ciò avviene solo pochi mesi dopo averci illuso di avere finalmente individuato la giusta strada per la corretta lettura e inquadramento della materia del copyright nel diritto euro-unitario ((ord. 11413 del 29 aprile 2024). Appare quindi inspiegabile questo arretramento, anche per la presenza nel collegio di un giudice che aveva già dimostrato di avere ben chiara una materia che continua ad apparire ostica alla prevalenza dei nostri giudici. Eppure è la medesima Sezione (rel. Caiazzo) che con chiarezza aveva individuato la cornice europea del copyright e la necessità della interpretazione uniforme. Non solo, in tale pronuncia la Corte aveva correttamente individuato il concetto di opera descritto nell’art. 2 della legge sul diritto d’autore quale “definizione autonoma” e quindi non suscettibile di letture domestiche da parte dei giudici degli Stati membri. Accade invece che nella presente decisione la Corte non citi mai il diritto applicabile generando legittimi dubbi che lo abbia tenuto in conto nel suo procedimento interpretativo. Si ritrovano nella sentenza alcune espressioni che sembrano mutuate in parte da decisioni della Corte di Giustizia della Unione Europea, ma proprio perché solo parzialmente richiamate e carenti in punti decisivi, nonché contraddette da altre affermazioni, restano mere evocazioni di dubbia comprensione.

Il riferimento al diritto euro-unitario può anche essere omesso e ricavabile implicitamente, ciò che non può essere omesso è il dovere di conformarsi alla norma di diritto superiore e alle interpretazioni fornite dalla Corte di giustizia della Unione europea e, in presenza di una giurisprudenza di merito che in questa materia appare ostinatamente tetragona al diritto uniforme, ci si aspetterebbe dalla Corte un approccio più chiaro ed esatto. Nella causa in esame, il tema centrale dei giudici di merito e della ordinanza è stata la definizione di opera fotografica e su questa definizione si sono “giocati” tre gradi di giudizio con un rigetto della domanda e una condanna per l’autore fondata su argomenti che appaiono deboli in punto di diritto, se non contrari, al diritto applicabile alla fattispecie. Definizione di opera fotografica, quindi, che è definizione autonoma di diritto uniforme, non lasciata alla libertà interpretativa del giudice nazionale, se non nell’apprezzamento di fatto della ricorrenza nel caso concreto dei requisiti fissati dal diritto uniforme.

Va precisato che non manca affatto in diritto una chiara e precisa definizione della nozione di “opera fotografica” a cui riferirsi perché è sin dal lontano 2011 che in una sentenza tanto celebre quanto apparentemente non considerata dai giudici nazionali (perché non constano precedenti sentenze di merito e legittimità che la citino) , la Corte  di Giustizia ha con chiarezza e precisione delineato gli elementi che definiscono una  fotografia quale opera pienamente tutelabile dal diritto d’autore. La sentenza a cui riferirsi è nel procedimento C-145/10 del 1 dicembre 2011 (Painer) ed è difficile discostarsene, come invece continuamente accade tra i giudici di merito. Non è questa la sede per interrogarsi sul perché questa decisione non appaia mai richiamata dalla nostra giurisprudenza, come se non esistesse, con la conseguenza di leggere le più varie licenze interpretative di cui non si sente il bisogno e che si rivelano dannose per l’inevitabile effetto a cascata di acritiche letture del precedente giurisprudenziale.

Nello specifico, definendo l’opera fotografica la Corte evoca alcuni dei criteri dettati dalla CGUE in Painer (le tre fasi della creazione di una foto in cui il fotografo può compiere scelte creative: la fase preparatoria, la fase dello scatto, la fase successiva o post produzione), ma tale riferimento si rivela solo una illusione perché poi la Corte introduce elementi soggettivi e discrezionali quali: il profilo artistico, la creatività dell’artista e conferma il procedimento logico della sentenza impugnata laddove attribuisce e supporta un valore ad una singolarità della forma espressiva ai fini del riconoscimento della creatività. Non solo tali licenze interpretative non sono coerenti con la definizione autonoma di opera fotografica, ma sono state espressamente sanzionate in più occasioni dalla Corte di Giustizia (la più nota: C-683/17 Cofemel) in quanto valutazioni discrezionali estranee alla nozione di “opera” di cui alla direttiva 2001/29, nozione che  implica necessariamente l’esistenza di un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività. E ancora: la necessita di evitare qualsiasi elemento di soggettività, pregiudizievole per la certezza del diritto, nel processo di identificazione di detto oggetto implica che quest’ultimo sia stato espresso in modo obiettivo C-683/17 par. 32-34).

Come e stato sottolineato dalla CGUE nella stessa sentenza: non risponde all’esigenza di precisione e oggettività richiesta un’identificazione che si fondi essenzialmente su sensazioni, intrinsecamente soggettive, della persona che percepisce l’oggetto in questione.

La Corte ha indicato nella necessaria certezza del diritto il motivo della interpretazione che sia uniforme e fondata su elementi obiettivi ed è evidente che tali elementi non possono essere soggetti alla percezione discrezionale dell’osservatore o alla possibile singolarità o novità della fotografia rispetto ad altre che avrebbero potuto essere state scattate da altri fotografi nella stessa occasione. Al di là della difficoltà di dare peso ad un requisito espresso in forma negativa, la Corte avvalora l’elemento della novità come requisito dell’opera. Ma tale requisito non esiste nella definizione di diritto uniforme e non se ne comprende perché le si dovrebbe dare ingresso con gli inevitabili effetti distorsivi e  restrittivi che comporta nel giudizio di valutazione (peraltro, la  ben nota sentenza della CGUE nella causa Renckhoff C-161/17 - noto perché ha definito la nozione di “comunicazione al pubblico” -  aveva per oggetto una fotografia che ritraeva le mura esterne della città di Cordoba, non proprio una fotografia che potesse definirsi connotata da novità).

Un’ultima nota: non è dato sapere se gli avvocati delle parti abbiano invocato o meno nei tre gradi di giudizio l’applicazione del diritto uniforme, ma anche in assenza di tale impulso, non viene meno in capo al Giudice l’obbligo di individuare la norma applicabile e di conformarsi al diritto vivente sovranazionale in ossequio ai principi costituzionali che determinano la gerarchia delle fonti.


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